«No, non si può parlare — esordisce Marazzi — di The Wolf of Wall Street senza fare riferimento a quel movimento. Anche economisti come Joseph Stiglitz non si sarebbero cimentati in analisi sulla diseguaglianza se non fosse stato per l’impatto nella societa americana di un movimento come Occupy. Spesso nell’interpretazione dei movimenti ci si concentra sul loro breve orizzonte temporale. Però l’efficacia di questi movimenti sta proprio nel riverberarsi su linguaggi diversi. È allora giusto far risalire questo film a Occupy Wall Street e vederne l’origine sul versante della critica radicale del capitalismo finanziario, sulla quale tante volte ci siamo espressi e che ora viene fatta da uno dei massimi registi degli ultimi trent’anni».
Nei tuoi libri e scritti hai analizzato la finanziarizzazione nei termini di uno sganciamento del denaro da ogni referente sostanziale. Ma così facendo il capitale rischia di implodere nella sua autoreferenzialità. Può essere una buona chiave di lettura per il film di Scorsese?
Bisogna interpretare la finanziarizzazione a partire dalla sua origine, ossia la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro nell’oro del 1971. Si è trattato politicamente di un attacco diretto e frontale alla classe operaia fordista. Si apre così una fase in cui la «desostanzializzazione» va di pari passo con la sempre maggiore autoreferenzialità dei processi di creazione della liquidità e di crescita della finanza, nel senso che la finanza fa riferimento a se stessa e quindi si autonomizza dal mondo del lavoro e della produzione. Lì abbiamo visto crescere e svilupparsi la moltitudine, una classe sociale liquida, dispersa, segmentata, molteplice. Difficile è darle un «corpo». La moltitudine prende corpo solo nei movimenti sociali a partire da Seattle. Un corpo che la finanza tende però sempre a distruggere.Nel film di Scorsese è interessante come affronta il tema dell’autoreferenzialità. Lo fa tirando in ballo il corpo della finanza. L’uso smodato della cocaina, il sesso compulsivo non sono solo una scelta cinematografica gratuita. Da un lato, è una fotografia fedele di quel mondo (ho vissuto i primi anni Ottanta a contatto con la City di Londra ed era proprio così). Dall’altro, situa il problema della corporeità a fronte della forma in cui la finanza e la finanziarizzazione pongono la questione. La cocaina corrisponde perfettamente al mondo della finanza, proprio perché trasforma il corpo della moltitudine – in questo caso dei piccoli investitori – nel corpo individuale. La droga rovescia il rapporto tra moltitudine e corporeità, perché riduce all’individualità il corpo della moltitudine. La cocaina è una droga codarda, perché tradisce in modo autoreferenziale quella che invece è la dimensione collettiva della moltitudine. Ciò spiega la follia che si annida in questo mondo, il pensare di poter vivere in una dimensione individuale e autoreferenziale, quando invece la finanza pone in negativo il problema del comune. La finanza è il cattivo comune: ci parla della potenza della moltitudine ma secondo una pratica del tutto autoreferenziale.
Potremmo dire che è il comune drogato…
Si. Resta un comune, ed è questo il motivo per cui è importante studiarla, ma in una dimensione completamente rovesciata. È un comune cattivo proprio perché nega la corporeità nella dimensione collettiva. E la droga è perfettamente funzionale a questo rovesciamento perverso.
Potremmo dire che le sostanze prendono il posto della sostanza. Il capitalismo finanziario dipinto nel film è infatti il trionfo dell’eccesso (fatto appunto di sesso sfrenato e droghe, in cui sfumano continuamente i confini tra legalità e illegalità). Questo eccesso di follia è l’altra faccia – oscura e inquietante – dell’eccedenza della cooperazione sociale?
In questa storia di eccedenze ce ne sono in abbondanza! È una storia assolutamente vera, di eccessi, di desiderio, di brama di denaro e di ricchezza, fatta vampirizzando la moltitudine. La moltitudine c’è in quello stanzone in cui si vedono gli impiegati di Bedford telefonare 24 ore su 24 per rastrellare denaro da investire e per far crescere i titoli azionari e tossici. Bisogna immaginarseli i piccoli risparmiatori che si lasciano infinocchiare da questi furfanti perché hanno bisogno di un wealth effect. Allo stesso tempo, c’è il lavoro dell’eccedenza, qui del tutto riferito all’interesse privato, alla proprietà privata, al furto del denaro altrui. La stessa eccedenza, ma segnata positivamente, la posso immaginare solo nei momenti più belli e più caldi delle occupazioni delle piazze negli ultimi anni. Zuccotti Park, Gezi Park, Puerta del sol e tante altre occupazioni di piazza sono solo alcuni esempi di un’eccedenza fatta di corpi molteplici, che si guardano e si parlano.
Corpi che escono dalla solitudine del comune drogato…
Sì, è un’eccedenza simmetrica e opposta. È Spinoza conto Hobbes, lo stare bene assieme contro la stare assieme male, perché ti distruggi, soffri, ti droghi. Molto importante, nella parte finale del film, è il tradimento. È una cosa ricorrente nella storia della finanza: questi filibustieri, le loro segretarie e i loro amici, nel momento in cui crolla tutto e ci si trova con l’Fbi alle calcagna, non esitano a tradire il loro migliore amico. Ognuno lo fa per salvare se stesso, non ci si pone nemmeno il problema di come si potrebbero salvare anche gli altri.
Il tradimento è dunque consustanziale alla finanza?
Sì. Di recente il direttore del Credit Suisse è stato di nuovo beccato dalle autorità fiscali degli Stati Uniti per aver aiutato l’evasione di grandi ricchi americani: ha subito denunciato i suoi più stretti collaboratori, quando tutti sapevano che andavano negli Stati Uniti, a spese della banca, per fare quello che il direttore diceva loro. Nella letteratura, già Meno di zero di Brett Ellis, negli anni Ottanta, prefigurava questa etica negativa che aleggia nel mondo della finanza. Questo ci porta alla questione: c’è un’etica della moltitudine che non sia quella negativa della finanza? Cos’è un’etica del comune? Come si fa a vivere una vita senza tradire il collettivo? Dobbiamo cercare questa linea di condotta, questo comportamento, questa etica di una non violenza finanziaria.
Un altro tema che emerge nel film è l’implosione del ceto medio. Da lì viene il protagonista, ben interpretato da Leonardo Di Caprio: di fronte al blocco della mobilità sociale, l’unica via diventa la rapina organizzata innanzitutto del ceto medio. Come gli spiega il primo broker che lo istruisce a Wall Street, bisogna sfilare il denaro dalle tasche degli altri e metterlo nelle proprie. Il sogno americano si trasfigura in un incubo, come spesso accade nei film di Scorsese: la ricchezza per tutti promessa dal «comunismo del capitale» si trasforma nella ricchezza dell’1% contro il 99%…
Il film narra la storia di come il ceto medio sia stato vampirizzato dalla finanziarizzazione e dai nuovi modi di produrre la ricchezza che la sottendono. Il ceto medio esiste come miraggio sul nulla. L’unico modo per concettualizzare il ceto medio oggi è infatti parlare del vuoto assoluto, e di come questo ex nihilo sia produttivo di comportamenti. La finanza si nutre di liquidità creata dal nulla e produce una tale polarizzazione per cui ciò che era alla base del ceto medio, la redistribuzione, è impossibile. La finanza risucchia i risparmi, li cancella, o meglio li distribuisce esclusivamente al vertice della piramide sociale. È quello che spiega la moltiplicazione dei nuovi ricchi e l’aumento delle forme di povertà. Tra i due poli, c’è un ceto medio che assomiglia al collo stretto di una clessidra. Come si può concepire una redistribuzione a partire dalle ceneri del ceto medio? Sono convinto che quello del reddito di cittadinanza resti un tema principe.
Un aspetto problematico è il rischio di un ritorno alla polarità tra economia reale ed economia finanziaria. La figura del poliziotto incarnare. ad esempio, il mito della gente onesta che lavora e prende la metropolitana contro i sogni di arricchimento dei «peones» di Wall Street. Cosa ne pensi?
Credo che Di Caprio in galera non ci stia più di due anni. Poi, le galere per questi grandi delinquenti sono dei club med, servono per lanciarli nel circuito delle star: sono tutti diventati conferenzieri lautamente pagati per raccontare come funziona il mondo. Però, l’effetto principale di questo finale è che, tutto sommato, ci si identifica con Di Caprio e non con la vita triste del «giusto», l’agente dell’Fbi. La finanza è infatti dentro di noi; questi stessi valori, anche nella loro pochezza e volgarità, in un certo senso sono trasversali. In realtà, è Di Caprio che vince e non l’agente dell’Fbi. Questo ci riporta all’impossibilità, anche dal punto di vista teorico e analitico, di riprodurre la separazione e dicotomia tra economia buona ed economia cattiva. Non c’è nessuna possibilità di ritorno al fordismo come supposta economia buona in cui la finanza era residuale e marginale rispetto alla centralità della grande industria, opposta dall’altra parte a un’economia che si è degradata con la finanza che la fa da padrona. Ma questo è il capitalismo: il capitalismo finanziario è il capitalismo, si chiama così perché la finanza supplisce una modalità di produzione di alti profitti che non possono più essere creati, marxianamente, secondo le modalità della teoria del valore-lavoro. La finanza è la modalità di produzione dei profitti in un’economia in cui è centrale il general intellect. È questo il capitalismo: cercare di distillare la finanza per bonificare l’economia reale non sta né in cielo né in terra. Allora, a me sembra interessante che possa scattare un’identificazione con il protagonista, mentre alcuni l’hanno vista come molto pericolosa, il limite stesso del film di Scorsese. Eppure è diffusa l’esperienza di questa identificazione per la vita spericolata del personaggio, per tutti i rapporti sessuali e le sniffate di cocaina che si fa: non ti identifichi certo con l’uomo dell’Fbi. Qui sta la forza del film, perché implicitamente ci dice che questo è il capitalismo dentro il quale viviamo.
Potremmo dire, dunque, che la finanza si incarna nei corpi in quanto corpi individualizzati?
Un modo di combattere la finanza è di perseguire una corporeità moltitudinaria, quella che ci porta a star bene con gli altri nelle piazze, nei quartieri, nelle occupazioni. Non voglio dire che sia la soluzione, ma è su questi terreni che costruiamo un’altra corporeità, che è il presupposto di un pensiero critico che si incarni nei processi reali.* La versione integrale dell’intervista è disponibile sul sito www.commonware.org
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