sabato 15 marzo 2014

ECONOMIA FINANZIARIA E CINEMA. G. ROGGERO, Il corpo tossico della finanza. Intervista con C. Marazzi, IL MANIFESTO, 12 marzo 2014

i può imma­gi­nare The Wolf of Wall Street senza l’esperienza di Occupy Wall Street? Da que­sta domanda prende le mosse la con­ver­sa­zione sul film di Mar­tin Scor­sese con Chri­stian Marazzi, eco­no­mi­sta mili­tante, autore di libri che sono diven­tati punto di rife­ri­mento per una cri­tica radi­cale del capi­ta­li­smo finan­zia­rio. Lau­reato all’Università di Padova negli anni Set­tanta, Chri­stian Marazzi ha par­te­ci­pato all’esperienza della rivi­sta «Primo mag­gio». Dopo una lunga per­ma­nenza a Lon­dra e a New York, ha inse­gnato in varie uni­ver­sità sviz­zere e ha svolto com­piti di ricerca sociale e ana­lisi eco­no­mica per le isti­tu­zioni del wel­fare state nel Can­ton Ticino. Negli anni Novanta, la casa edi­trice Casa­grante ha pub­bli­cato Il posto dei cal­zini (il volume è stato ripro­po­sto pochi anni dopo da Bol­lati Borin­ghieri). Seguono i saggi Capi­tale e lin­guag­gio. Dalla New Eco­nomy all’economia di guerra (Derive Approdi), E il denaro va (Bol­lati Borin­ghieri), Finanza bru­ciata (Casa­grande), Il comu­ni­smo del capi­tale (ombre corte).



«No, non si può par­lare — esor­di­sce Marazzi — di The Wolf of Wall Street senza fare rife­ri­mento a quel movi­mento. Anche eco­no­mi­sti come Joseph Sti­glitz non si sareb­bero cimen­tati in ana­lisi sulla dise­gua­glianza se non fosse stato per l’impatto nella societa ame­ri­cana di un movi­mento come Occupy. Spesso nell’interpretazione dei movi­menti ci si con­cen­tra sul loro breve oriz­zonte tem­po­rale. Però l’efficacia di que­sti movi­menti sta pro­prio nel river­be­rarsi su lin­guaggi diversi. È allora giu­sto far risa­lire que­sto film a Occupy Wall Street e vederne l’origine sul ver­sante della cri­tica radi­cale del capi­ta­li­smo finan­zia­rio, sulla quale tante volte ci siamo espressi e che ora viene fatta da uno dei mas­simi regi­sti degli ultimi trent’anni».
Nei tuoi libri e scritti hai ana­liz­zato la finan­zia­riz­za­zione nei ter­mini di uno sgan­cia­mento del denaro da ogni refe­rente sostan­ziale. Ma così facendo il capi­tale rischia di implo­dere nella sua auto­re­fe­ren­zia­lità. Può essere una buona chiave di let­tura per il film di Scorsese?
Biso­gna inter­pre­tare la finan­zia­riz­za­zione a par­tire dalla sua ori­gine, ossia la dichia­ra­zione di incon­ver­ti­bi­lità del dol­laro nell’oro del 1971. Si è trat­tato poli­ti­ca­mente di un attacco diretto e fron­tale alla classe ope­raia for­di­sta. Si apre così una fase in cui la «deso­stan­zia­liz­za­zione» va di pari passo con la sem­pre mag­giore auto­re­fe­ren­zia­lità dei pro­cessi di crea­zione della liqui­dità e di cre­scita della finanza, nel senso che la finanza fa rife­ri­mento a se stessa e quindi si auto­no­mizza dal mondo del lavoro e della pro­du­zione. Lì abbiamo visto cre­scere e svi­lup­parsi la mol­ti­tu­dine, una classe sociale liquida, dispersa, seg­men­tata, mol­te­plice. Dif­fi­cile è darle un «corpo». La mol­ti­tu­dine prende corpo solo nei movi­menti sociali a par­tire da Seat­tle. Un corpo che la finanza tende però sem­pre a distruggere.
Nel film di Scor­sese è inte­res­sante come affronta il tema dell’autoreferenzialità. Lo fa tirando in ballo il corpo della finanza. L’uso smo­dato della cocaina, il sesso com­pul­sivo non sono solo una scelta cine­ma­to­gra­fica gra­tuita. Da un lato, è una foto­gra­fia fedele di quel mondo (ho vis­suto i primi anni Ottanta a con­tatto con la City di Lon­dra ed era pro­prio così). Dall’altro, situa il pro­blema della cor­po­reità a fronte della forma in cui la finanza e la finan­zia­riz­za­zione pon­gono la que­stione. La cocaina cor­ri­sponde per­fet­ta­mente al mondo della finanza, pro­prio per­ché tra­sforma il corpo della mol­ti­tu­dine – in que­sto caso dei pic­coli inve­sti­tori – nel corpo indi­vi­duale. La droga rove­scia il rap­porto tra mol­ti­tu­dine e cor­po­reità, per­ché riduce all’individualità il corpo della mol­ti­tu­dine. La cocaina è una droga codarda, per­ché tra­di­sce in modo auto­re­fe­ren­ziale quella che invece è la dimen­sione col­let­tiva della mol­ti­tu­dine. Ciò spiega la fol­lia che si annida in que­sto mondo, il pen­sare di poter vivere in una dimen­sione indi­vi­duale e auto­re­fe­ren­ziale, quando invece la finanza pone in nega­tivo il pro­blema del comune. La finanza è il cat­tivo comune: ci parla della potenza della mol­ti­tu­dine ma secondo una pra­tica del tutto autoreferenziale.
Potremmo dire che è il comune drogato…
Si. Resta un comune, ed è que­sto il motivo per cui è impor­tante stu­diarla, ma in una dimen­sione com­ple­ta­mente rove­sciata. È un comune cat­tivo pro­prio per­ché nega la cor­po­reità nella dimen­sione col­let­tiva. E la droga è per­fet­ta­mente fun­zio­nale a que­sto rove­scia­mento perverso.
Potremmo dire che le sostanze pren­dono il posto della sostanza. Il capi­ta­li­smo finan­zia­rio dipinto nel film è infatti il trionfo dell’eccesso (fatto appunto di sesso sfre­nato e dro­ghe, in cui sfu­mano con­ti­nua­mente i con­fini tra lega­lità e ille­ga­lità). Que­sto eccesso di fol­lia è l’altra fac­cia – oscura e inquie­tante – dell’eccedenza della coo­pe­ra­zione sociale?
In que­sta sto­ria di ecce­denze ce ne sono in abbon­danza! È una sto­ria asso­lu­ta­mente vera, di eccessi, di desi­de­rio, di brama di denaro e di ric­chezza, fatta vam­pi­riz­zando la mol­ti­tu­dine. La mol­ti­tu­dine c’è in quello stan­zone in cui si vedono gli impie­gati di Bed­ford tele­fo­nare 24 ore su 24 per rastrel­lare denaro da inve­stire e per far cre­scere i titoli azio­nari e tos­sici. Biso­gna imma­gi­nar­seli i pic­coli rispar­mia­tori che si lasciano infi­noc­chiare da que­sti fur­fanti per­ché hanno biso­gno di un wealth effect. Allo stesso tempo, c’è il lavoro dell’eccedenza, qui del tutto rife­rito all’interesse pri­vato, alla pro­prietà pri­vata, al furto del denaro altrui. La stessa ecce­denza, ma segnata posi­ti­va­mente, la posso imma­gi­nare solo nei momenti più belli e più caldi delle occu­pa­zioni delle piazze negli ultimi anni. Zuc­cotti Park, Gezi Park, Puerta del sol e tante altre occu­pa­zioni di piazza sono solo alcuni esempi di un’eccedenza fatta di corpi mol­te­plici, che si guar­dano e si parlano.
Corpi che escono dalla soli­tu­dine del comune drogato…
Sì, è un’eccedenza sim­me­trica e oppo­sta. È Spi­noza conto Hob­bes, lo stare bene assieme con­tro la stare assieme male, per­ché ti distruggi, sof­fri, ti dro­ghi. Molto impor­tante, nella parte finale del film, è il tra­di­mento. È una cosa ricor­rente nella sto­ria della finanza: que­sti fili­bu­stieri, le loro segre­ta­rie e i loro amici, nel momento in cui crolla tutto e ci si trova con l’Fbi alle cal­ca­gna, non esi­tano a tra­dire il loro migliore amico. Ognuno lo fa per sal­vare se stesso, non ci si pone nem­meno il pro­blema di come si potreb­bero sal­vare anche gli altri.
Il tra­di­mento è dun­que con­su­stan­ziale alla finanza?
Sì. Di recente il diret­tore del Cre­dit Suisse è stato di nuovo bec­cato dalle auto­rità fiscali degli Stati Uniti per aver aiu­tato l’evasione di grandi ric­chi ame­ri­cani: ha subito denun­ciato i suoi più stretti col­la­bo­ra­tori, quando tutti sape­vano che anda­vano negli Stati Uniti, a spese della banca, per fare quello che il diret­tore diceva loro. Nella let­te­ra­tura, già Meno di zero di Brett Ellis, negli anni Ottanta, pre­fi­gu­rava que­sta etica nega­tiva che aleg­gia nel mondo della finanza. Que­sto ci porta alla que­stione: c’è un’etica della mol­ti­tu­dine che non sia quella nega­tiva della finanza? Cos’è un’etica del comune? Come si fa a vivere una vita senza tra­dire il col­let­tivo? Dob­biamo cer­care que­sta linea di con­dotta, que­sto com­por­ta­mento, que­sta etica di una non vio­lenza finanziaria.
Un altro tema che emerge nel film è l’implosione del ceto medio. Da lì viene il pro­ta­go­ni­sta, ben inter­pre­tato da Leo­nardo Di Caprio: di fronte al blocco della mobi­lità sociale, l’unica via diventa la rapina orga­niz­zata innan­zi­tutto del ceto medio. Come gli spiega il primo bro­ker che lo istrui­sce a Wall Street, biso­gna sfi­lare il denaro dalle tasche degli altri e met­terlo nelle pro­prie. Il sogno ame­ri­cano si tra­sfi­gura in un incubo, come spesso accade nei film di Scor­sese: la ric­chezza per tutti pro­messa dal «comu­ni­smo del capi­tale» si tra­sforma nella ric­chezza dell’1% con­tro il 99%…
Il film narra la sto­ria di come il ceto medio sia stato vam­pi­riz­zato dalla finan­zia­riz­za­zione e dai nuovi modi di pro­durre la ric­chezza che la sot­ten­dono. Il ceto medio esi­ste come mirag­gio sul nulla. L’unico modo per con­cet­tua­liz­zare il ceto medio oggi è infatti par­lare del vuoto asso­luto, e di come que­sto ex nihilo sia pro­dut­tivo di com­por­ta­menti. La finanza si nutre di liqui­dità creata dal nulla e pro­duce una tale pola­riz­za­zione per cui ciò che era alla base del ceto medio, la redi­stri­bu­zione, è impos­si­bile. La finanza risuc­chia i risparmi, li can­cella, o meglio li distri­bui­sce esclu­si­va­mente al ver­tice della pira­mide sociale. È quello che spiega la mol­ti­pli­ca­zione dei nuovi ric­chi e l’aumento delle forme di povertà. Tra i due poli, c’è un ceto medio che asso­mi­glia al collo stretto di una cles­si­dra. Come si può con­ce­pire una redi­stri­bu­zione a par­tire dalle ceneri del ceto medio? Sono con­vinto che quello del red­dito di cit­ta­di­nanza resti un tema principe.
Un aspetto pro­ble­ma­tico è il rischio di un ritorno alla pola­rità tra eco­no­mia reale ed eco­no­mia finan­zia­ria. La figura del poli­ziotto incar­nare. ad esem­pio, il mito della gente one­sta che lavora e prende la metro­po­li­tana con­tro i sogni di arric­chi­mento dei «peo­nes» di Wall Street. Cosa ne pensi?
Credo che Di Caprio in galera non ci stia più di due anni. Poi, le galere per que­sti grandi delin­quenti sono dei club med, ser­vono per lan­ciarli nel cir­cuito delle star: sono tutti diven­tati con­fe­ren­zieri lau­ta­mente pagati per rac­con­tare come fun­ziona il mondo. Però, l’effetto prin­ci­pale di que­sto finale è che, tutto som­mato, ci si iden­ti­fica con Di Caprio e non con la vita tri­ste del «giu­sto», l’agente dell’Fbi. La finanza è infatti den­tro di noi; que­sti stessi valori, anche nella loro pochezza e vol­ga­rità, in un certo senso sono tra­sver­sali. In realtà, è Di Caprio che vince e non l’agente dell’Fbi. Que­sto ci riporta all’impossibilità, anche dal punto di vista teo­rico e ana­li­tico, di ripro­durre la sepa­ra­zione e dico­to­mia tra eco­no­mia buona ed eco­no­mia cat­tiva. Non c’è nes­suna pos­si­bi­lità di ritorno al for­di­smo come sup­po­sta eco­no­mia buona in cui la finanza era resi­duale e mar­gi­nale rispetto alla cen­tra­lità della grande indu­stria, oppo­sta dall’altra parte a un’economia che si è degra­data con la finanza che la fa da padrona. Ma que­sto è il capi­ta­li­smo: il capi­ta­li­smo finan­zia­rio è il capi­ta­li­smo, si chiama così per­ché la finanza sup­pli­sce una moda­lità di pro­du­zione di alti pro­fitti che non pos­sono più essere creati, mar­xia­na­mente, secondo le moda­lità della teo­ria del valore-lavoro. La finanza è la moda­lità di pro­du­zione dei pro­fitti in un’economia in cui è cen­trale il gene­ral intel­lect. È que­sto il capi­ta­li­smo: cer­care di distil­lare la finanza per boni­fi­care l’economia reale non sta né in cielo né in terra. Allora, a me sem­bra inte­res­sante che possa scat­tare un’identificazione con il pro­ta­go­ni­sta, men­tre alcuni l’hanno vista come molto peri­co­losa, il limite stesso del film di Scor­sese. Eppure è dif­fusa l’esperienza di que­sta iden­ti­fi­ca­zione per la vita spe­ri­co­lata del per­so­nag­gio, per tutti i rap­porti ses­suali e le snif­fate di cocaina che si fa: non ti iden­ti­fi­chi certo con l’uomo dell’Fbi. Qui sta la forza del film, per­ché impli­ci­ta­mente ci dice che que­sto è il capi­ta­li­smo den­tro il quale viviamo.
Potremmo dire, dun­que, che la finanza si incarna nei corpi in quanto corpi individualizzati?
Un modo di com­bat­tere la finanza è di per­se­guire una cor­po­reità mol­ti­tu­di­na­ria, quella che ci porta a star bene con gli altri nelle piazze, nei quar­tieri, nelle occu­pa­zioni. Non voglio dire che sia la solu­zione, ma è su que­sti ter­reni che costruiamo un’altra cor­po­reità, che è il pre­sup­po­sto di un pen­siero cri­tico che si incarni nei pro­cessi reali.

* La ver­sione inte­grale dell’intervista è dispo­ni­bile sul sito www​.com​mo​n​ware​.org

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