La grande avventura del capitalismo, e del mercato - e il dibattito che, di volta in volta, si accende su di essi - si sviluppa tutto intorno a un problema filosofico. Di Teoria della conoscenza. Parliamo volentieri di «crisi del capitalismo e del mercato» e non ci accorgiamo che in crisi è la metodologia della conoscenza cui ci affidiamo; fragile è la nostra capacità di capire. Il crinale lungo il quale procede lo sviluppo capitalistico, e si muove il mercato, è quello della «conoscenza relativa» delle preferenze soggettive di milioni di individui.
Conosciamo solo parzialmente le dinamiche socio-economiche collettive.
Ce la caviamo meglio quando provvediamo, da noi, a noi stessi. Detto in parole povere: il capitalismo funziona se gli uomini «sanno di non sapere» quando devono prendere decisioni che riguardano la collettività; non funziona, quando credono di sapere. La ragione è che la collettività è una astrazione ideologica inconsistente; gli uomini sono cento, mille, un milione e fanno ciascuno di testa loro.
A complicare le cose subentra il «principio di autorità», cioè la Politica. E qui il capitalismo entra in conflitto con la democrazia. Il processo decisionale democratico-parlamentare nasce, originariamente, all'insegna di «un velo di ignoranza». Nessuno sa quale sia la soluzione perfetta se si tratta di scegliere fra una pluralità di valori e di interessi ugualmente legittimi. Se fosse possibile saperlo, non ci sarebbe bisogno di votare. Basterebbe consultare «chi sa», adottarne la soluzione, e i giochi sarebbero fatti. È ciò che fanno le tecnostrutture e i totalitarismi. In democrazia, ci si affida alla conta delle teste; non è la soluzione migliore, se non sotto il profilo procedurale, bensì solo quella accettabile, e accettata, anche da chi non era d'accordo. Diventa, con ciò, non solo politicamente legittima, ma anche giuridicamente vincolante. Come si suol dire, non si impongono i gusti alla gente per decreto; quelli dipendono dall'interazione fra libere scelte individuali non facilmente prevedibili e programmabili. Fa tutta la differenza fra l'illusione di certi economisti di sapere dove vada il mondo, e di poterlo programmare razionalmente, e i filosofi politici e morali, per i quali la Politica rimane un coacervo di opinioni a confronto su un mondo reale sempre imprevedibile e non programmabile.
È anche ciò che distingue l'Illuminismo razionalista francese - che assegna alla Ragione e alla «volontà generale» di Rousseau il potere di sapere cosa vogliano i cittadini - e l'Illuminismo empirico e scettico scozzese, secondo il quale sono le passioni a guidare la Ragione e non viceversa. Le scoperte scientifiche del XVII e XVIII secolo avevano aperto le porte al razionalismo, incoraggiando gli uomini ad «osare», a cercare oltre i confini dei dogmi teologici della religione. La trasposizione delle tecniche di indagine della Scienza alla società ha prodotto una forma di «scientismo e di perfettismo sociali» che degenera nel costruttivismo (l'idea di creare l'Uomo e una società nuovi). Quando l'Uomo si è fatto Dio, o ha creduto di esserlo, ha fallito. La mente, ha scritto David Hume, è solo un accumulo di «percezioni» generate dalle esperienze fatte. Karl Popper ha detto che lo sviluppo umano è determinato dalla costante presenza di tentativi e errori, sanata dalla verificabilità (falsificabilità), nella realtà, delle singole assunzioni, e dalla possibilità, in una «società aperta», di correggere gli errori commessi senza tagliare le teste. Il nostro Luigi Einaudi ha teorizzato il conflitto come il dato permanente del progresso nelle libertà.
Un'altra differenza fra certi economisti e i filosofi morali è l'idea degli economisti che la società - una volta individuato il bandolo della matassa dell'equilibrio socio-economico - sia fondamentalmente statica, mentre i filosofi la ritengono in continuo movimento. L'empirismo e lo scetticismo scozzese contraddicono anche l'idea hegeliana, che Marx avrebbe tradotto in determinismo storico, in base alla quale il cammino della Storia approda alla propria stessa fine col trionfo della Libertà.
Nella nostra cultura nazionale prevalgono il razionalismo ovvero l'idealismo, se non una mistura di entrambi.
Per dare a Cesare ciò che è di Cesare, aggiungo, infine, che anche l'Economia ha contribuito a farci capire meglio il mondo in cui viviamo.
L'Economia classica, da Smith a Marx, era fondata sul concetto di valore-lavoro. Il valore di un Bene consisteva nella quantità di lavoro in esso contenuto per produrlo. L'accento era sulla produzione e il liberale Smith, a suo modo, aveva fornito a Marx l'argomento del plusvalore come surplus di lavoro che l'imprenditore, col profitto, sottrarrebbe al lavoratore, sfruttandolo e alienandolo rispetto al frutto della sua stessa attività lavorativa. La semplice verifica empirica, che il pescatore di perle che torna in superficie con una manciata di pietre avrebbe prodotto, col suo lavoro, un valore analogo a quello delle perle, smentisce l'assunto. La rivoluzione marginalista, spostando il valore del Bene dal lavoro per produrlo alla sua appetibilità per il fruitore, ha trasferito l'Economia dalla produzione al mercato, e ai consumi soggettivi, sottraendo alla produzione anche la sua natura di sede della lotta di classe.
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