mercoledì 29 febbraio 2012

CAPITALISMO COME RELIGIONE. RISPOSTA AD AGAMBEN.VITIELLO G. E' arrivato lo stregone, IL FOGLIO, 20 febbraio 2012

Se solo ci fossero gli abati di una volta! Heinrich Heine non dimenticò mai le botte che si buscò dal suo istruttore di francese, l’abate d’Aulnoi. Per sei volte questi gli aveva domandato: “Henri, come si dice fede in francese?”. E per sei volte, sempre più vicino al pianto, il giovane Heine aveva risposto: “Si dice le crédit”. D’imprimergli nella mente con le buone una paroletta semplice semplice come foi proprio non c’era verso. Fosse vivo oggi, l’abate d’Aulnoi darebbe una bella tirata d’orecchi a Giorgio Agamben, che giovedì su Repubblica ha eretto un castello di carte speculativo sullo stesso equivoco per cui Heine si beccò quegli sganassoni di gioventù.


L’articolo, che porta un bel titolo da ruggenti anni Trenta, “Se la feroce religione del denaro divora il futuro”, comincia in modo affabile e colloquiale, ma Agamben resiste appena quindici righe prima di calare in tavola la prima parola greca. Il suo giro mentale, in breve, è questo: fede, nel greco del Nuovo Testamento, si dice “pistis”; ma la stessa parola vuol dire anche credito, tanto che “trapeza tes pisteos” significa banca di credito; e infatti, tanto la fede che il credito danno sostanza alle nostre speranze; ma siccome oggi non c’è più fede religiosa, tutte le speranze si sono rintanate nel credito; non ci rivolgiamo più alle chiese aspettandoci il paradiso ma affidiamo il nostro futuro alle banche, che sono i santuari del capitalismo finanziario, la religione “più feroce e implacabile che sia mai esistita”, nonché la “più oscura e irrazionale”. Caspita, e noi che dicevamo tutto quel male dei sacrifici umani aztechi: ora tutti a chiedere scusa al dio Huitzilopochtli.

D’accordo, Agamben non è nuovo alle iperboli, anche se insiste che iperboli non sono e che vanno prese alla lettera. Dalla sua postfazione a un’edizione di Guy Debord con copertina firmata da Missoni apprendemmo, per esempio, che la società dello spettacolo è una società totalitaria, forse la più totalitaria che sia mai esistita. Da un suo articolo sul Monde del gennaio 1994 scoprimmo che con le elezioni di marzo, in Italia, ci si poteva aspettare di tutto, “compresi dei nuovi campi di concentramento”.
E d’altro canto, nel suo libro su Auschwitz osservò che la partita di calcio tra le SS e i membri del Sonderkommando, episodio raccontato da un sopravvissuto, si ripete ogni domenica nei nostri stadi (non sappiamo da quali tribune numerate heideggeriane si riesca a cogliere l’analogia: noi, assiepati sui nostri spalti molto “ontici”, non ce ne siamo mai accorti). Ma il problema di quest’ultimo intervento non sono le iperboli: il problema stavolta è che Agamben non ha osato troppo, ha osato troppo poco.

Il punto d’appoggio era saldissimo, e gli consentiva ben altre acrobazie. Se andiamo a frugare nel “Vocabolario delle istituzioni indoeuropee” di Émile Benveniste, che Agamben conosce a menadito e probabilmente tiene nel portariviste accanto alla poltrona, scopriremo che la radice *kred- (da cui il latino credo) tiene assieme fede e credito, sotto l’idea comune di affidare ad altri qualcosa che ci appartiene, nella certezza di ritrovarlo: “E’ lo stesso meccanismo che entra in azione sia per una fede propriamente religiosa sia per la fiducia in un uomo, che l’impegno sia di parole, di promesse o di denaro”. Da questa analogia si possono trarre, solo a volerlo, implicazioni vertiginose.

Elémire Zolla, per esempio, meditò in questa luce la scena del “Faust” in cui Mefistofele inventa la carta moneta, e al termine di alcune pagine straordinarie concluse che “ogni storia ecclesiastica percorre la stessa spirale della storia monetaria”. Le chiese, al pari delle banche, promettono il tesoro ma danno ai fedeli solo la carta moneta delle devozioni, dei precetti e delle formule sacre. Questa sì che è immaginazione filosofica.

Agamben, in compenso, si accontenta di poco.
Prende un dato innegabile – la fede, o anche solo la fiducia, è indispensabile per far funzionare qualunque sistema monetario che sia appena un gradino sopra il baratto, altrimenti col cavolo che ti do due buoi in cambio di un pezzo di carta con su scritto “vale due buoi” – e corre alla conclusione che il capitalismo finanziario è una religione oscura e barbarica. Tutto quel che sa trarne è che la Banca (maiuscolo, singolare) governa il mondo, che manipola la fede in modo privo di scrupoli lucrando denaro dalle speranze degli esseri umani, e che “il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese”.

Suvvia, c’era bisogno di tirare in ballo il greco antico per riproporre questi cliché anticapitalistici da caricatura ottocentesca, la Banca con i suoi “grigi funzionari” (il mio sportellista, per quel che conta, ha sempre sgargianti cravatte a pois) e i suoi “tetri, screditati pseudosacerdoti”? C’era bisogno della prodigiosa erudizione di Agamben per allineare banalità da talk-show o da parruccheria come “la nostra, si sa, è un’epoca di scarsa fede (…) un’epoca senza futuro e senza speranze – o di futuri vuoti e di false speranze”? Baratteremmo tutta questa roba (più due buoi) per mezzo aforisma di Paul Valéry sul crédit. Dall’autore di “Stanze”, di cui abbiamo sempre ammirato se non altro l’immaginazione filosofica, ci saremmo aspettati di meglio. Ma gli suggeriamo, per il prossimo esercizio di stile, un’altra bella parola dal doppio significato filosofico e finanziario: speculazione.
di Guido Vitiello

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