mercoledì 29 febbraio 2012

CAPITALISMO E FILOSOFI ITALIANI. GALLI DELLA LOGGIA E., L'anticapitalismo all'italiana, IL CORRIERE DELLA SERA, 29 febbraio 2012

Forse Roberto Esposito ha avuto un po' troppo fretta nel compiacersi (Il made in Italy della filosofia, «la Repubblica», 24 febbraio) della fortuna che da qualche tempo vanno mietendo in America l'Italian Theory — cioè l'opera di alcuni noti filosofi italiani: da Agamben, a Negri a Tronti, e non da ultimo allo stesso Esposito — e in qualche modo, per loro tramite, la tradizione intellettuale italiana.


Tale fortuna si dovrebbe, egli scrive, a tre elementi. Innanzi tutto alla naturale propensione del nostro pensiero — di quello antico così come di quello attuale — a ignorare i vincoli politico-statal-nazionali (per secoli, come si sa, non abbiamo avuto uno Stato nazionale); poi, alla sua tendenza a rompere gli steccati disciplinari, dando luogo viceversa a «un'inventiva semantica assente in altre culture irrigidite in ambiti specialistici»; e infine alla tensione polemica che il pensiero italiano avrebbe sempre avuto nei confronti del potere, ciò che spesso lo ha condotto a una «teoria della soggettività politica orientata al conflitto». Tutte cose che oggi negli Stati Uniti di «Occupy Wall Street» piacciono molto.

Ma che cos'è che piace davvero e di più dell'Italian Theory ce lo dicono forse le cose che sempre su «Repubblica» abbiamo letto di recente dello stesso Esposito (La mistica del capitalismo, 6 dicembre 2011) e, all'incirca sulla sua medesima linea, di Giorgio Agamben (Se la feroce religione del denaro divora il futuro, 16 febbraio 2012).

I titoli dicono già tutto. Il capitalismo, scrive Esposito, è ormai divenuto una vera e propria religione (parola di Benjamin, del 1921, cioè di circa un secolo fa: è sicuro che si tratti dello stesso capitalismo? Difficile pensarlo, ma sorvoliamo: le circostanze di tempo e di luogo sono, come si sa, ubbie fuori moda degli storici). La quale religione ci ha imposto un culto distruttivo: quello della merce, del consumo, raffigurato nel culto del brand, del marchio famoso. Poche righe sotto, per la verità, la nuova religione non è più quella del capitalismo ma quella del «capitale finanziario» (anche qui: forse sono cose alquanto diverse, ma non importa). La conclusione è un atto di fede nella politica, la sola forza capace di opporsi alla prospettiva del «mondo dentro il capitale», l'unica capace di contrastarne la «deriva autodissolutiva».

A ruota di Esposito, ma più spavaldamente e approssimativamente, Agamben. Il cui sfoggio di erudizione filologico-linguistica lo conduce alla straordinaria scoperta che «il capitalismo finanziario — e le banche che ne sono l'organo principale — funzionano giocando sul credito — cioè sulla fede (credito = fede) — degli uomini» (ma va?!). Proprio come — ecco il cuore della sua analisi — sulla fede funziona la religione. Insomma: fede = credito = futuro = religione. E dunque il credito governa il mondo e il nostro futuro; il potere finanziario ha sequestrato tutta la fede e tutto il futuro; il denaro, per l'appunto, è diventato «la più irrazionale di tutte le religioni».

Che dire? Innanzi tutto che in questi lacerti di Italian Theory applicata, chiamiamola così, riecheggia, mi pare, un suono assai antico. Lo stesso che si fa sentire puntualmente da 150 anni ogni volta che sopraggiunge una crisi economica: e cioè il suono dell'anticapitalismo. Nell'anticapitalismo, intendiamoci, non c'è niente di male. Ma a una condizione, direi: che esso stia ai fatti. Cioè che esso si misuri con i processi reali, metta il piede sul viscido terreno delle cause e degli effetti, che spinga il suo acuto sguardo fino a scorgere la vastità e la complessità delle forze in gioco. Troppo spesso invece, come in questo caso, l'anticapitalismo cui periodicamente amano dare voce i filosofi diviene l'esito ineluttabile di un'operazione totalmente astratta. E cioè l'esito di un processo di metaforizzazione etico-spirituale della realtà storica: quella metaforizzazione le cui prime grandi prove furono fornite tra Sette e Ottocento dall'idealismo tedesco riassumendosi nel nome esemplare di Hegel. L'idealismo, come si sa, è stato da tempo abbandonato, ma grazie a Marx quella metafora valoriale è scesa dal cielo della filosofia della storia a quello della lotta politico-ideologica. In tal modo essa si è resa e si rende disponibile a chiunque desideri dissociarsi dall'esistente (cioè dalla modernità), a chiunque voglia immaginare una posizione «antagonistica» — o, come anche ama dire Esposito, una «sporgenza» rispetto a tale modernità — e quindi auspichi sia pur fantasticamente un mondo nuovo e diverso da quello che c'è. Al tempo stesso sempre desiderando, però, di attribuire a questo atteggiarsi teorico-pratico un valore eticamente positivo: il che è possibile, come si capisce, solo se alla modernità vigente è attribuito un carattere intrinsecamente negativo o comunque difettivo. Infatti, una volta che siamo certi di aver smascherato il male che pervade la realtà, come dubitare che il nostro ragionare coglie la verità, e che noi siamo il bene? Da sempre l'anticapitalismo — cioè da due secoli la forma più diffusa di critica all'esistente — si regge su due gambe: l'esibita ambizione teorica e un (assai più sommesso ma non meno tenace) intento etico.

La critica all'esistente di Esposito e Agamben si manifesta oggi nella forma — se posso permettermi, non nuovissima — di una critica al consumismo, alla reificazione economicistica, alla deriva finanziaria, alla vera e propria religione distruttiva del dio denaro, che caratterizzerebbero il mondo capitalistico. Si tratta di fenomeni reali, non intendo negarlo. Ma il punto decisivo è che, astratti dal contesto in cui hanno visto la luce e operano, avulsi dalla storia (categoria sempre più tenuta in non cale, mi pare, dal discorso filosofico che solitamente si fa sulla modernità), quei fenomeni assumono un falso significato totalizzante e, presi di per sé, non ci aiutano per nulla a capire la situazione dell'epoca.

La quale, invece, prende tutto il suo senso vero e altamente drammatico solo se quei fenomeni vengono connessi con alcuni altri della scena storica. Mi limito ad accennare in forma apodittica tre solamente di tali connessioni, ognuna delle quali dà vita a un immane blocco di questioni.

Primo: il consumismo non è altro che il volto disetico della democrazia. Se esiste il suffragio universale, è inevitabile che il proprio voto venga adoperato dai più per ottenere sempre maggiori miglioramenti materiali. Cioè più reddito per acquistare più beni e servizi. Si potrà pure soddisfare tale richiesta ricorrendo a un'offerta di beni e di servizi di carattere, diciamo così, pubblico, ma solo in parte, per non restringere pericolosamente l'area della produzione e del mercato capitalistico dal momento che:

Secondo: il capitalismo si è dimostrato storicamente il sistema di combinazione dei fattori produttivi in grado di produrre al minor costo la maggiore quantità di beni e in una varietà la più ampia. Il che ha fatto sì che in una già vastissima area del mondo (che probabilmente tende ulteriormente ad aumentare) si sia stabilito un rapporto organico, un'intrinsichezza assoluta tra capitalismo e democrazia. Non tutti i Paesi con un'economia capitalistica sono democratici, ma tutti i Paesi democratici hanno un'economia capitalistica. Ciò implica che qualunque discorso sulla società, che parli di capitalismo senza parlare insieme di democrazia, risulti implausibile. Benjamin nel 1921 poteva non rendersene conto, ma noi oggi no.

Terzo: è in questo viluppo di fenomeni che la deprecata «religione del denaro» ha la sua vera ragion d'essere e la sua scaturigine. Così come in gran parte ce l'ha il ruolo soverchiante assunto dalla finanza. Da un lato, infatti, con la democrazia capitalistica tutte le persone e tutti i beni vengono immessi nel mercato dove domina il denaro, e dunque il denaro domina universalmente. Dall'altro lato nei regimi democratici governare significa in sostanza spendere, e quando le risorse a disposizione dei governi e degli Stati non sono più sufficienti non resta che ricorrere allo strumento finanziario del debito. Allo stesso modo i privati ricorrono al credito per mantenere o accrescere di continuo il proprio livello di consumi e di benessere.

Ma c'è una questione generale che in tema di «religione del capitalismo», «religione del denaro» e via seguitando è alquanto sorprendente non vedere per nulla affrontata dai nostri critici. È quella — ancora una volta eminentemente storica — della secolarizzazione. A me appare chiaro che se nel nostro mondo si è affermato il nuovo culto delle merci e del capitale, se tutto ha preso un tono di esasperato materialismo, ciò è avvenuto perché la vecchia religione cristiana ha progressivamente perso forza e autorità ed è stata messa ai margini della realtà sociale. Ma se ciò è vero, mi domando allora come si possa dare un giudizio etico così netto sulle forme del nuovo dominio «religioso» capitalistico, come danno Esposito e Agamben, senza esprimere contemporaneamente almeno una qualche valutazione circa il dominio antico, circa il ruolo sociale e spirituale del Cristianesimo nonché circa il significato del suo tramonto. E dunque come si possa evitare di pensare che il vero, grande problema irrisolto delle società democratiche sia precisamente quello della tendenziale dissoluzione di un abito etico comune. Non voglio pensare che ciò avvenga per il timore di contravvenire a qualche prescrizione dell'attuale mainstream «laico».

E vengo all'Italian Theory e alla sua fortuna americana da cui queste righe hanno preso le mosse. Per dire che forse le ragioni di tale fortuna vanno valutate in modo un po' più problematico di quanto abbia fatto, come ho detto all'inizio, Roberto Esposito. Egli sa meglio di me come da ormai mezzo secolo e oltre il mondo accademico degli Stati Uniti, in modo specialissimo quello delle humanities, sia bulimicamente affamato di «teorie» generali che gli permettano di leggere il mondo in modo per così dire «critico» e «antagonistico». Da Marcuse a Foucault, a Gramsci, a Derrida, a Lacan, a Toni Negri, nei campus americani è una caccia vorticosa e continua a sempre nuovi testi e ad autori esemplari, capaci di garantire che il mondo non è come appare, che esso nasconde chiavi di lettura ignote o non visibili ai più; che possedendo tali chiavi è magari possibile rovesciarne le regole; e insieme, e soprattutto, che chi ha il potere lo esercita, se non contro i più reali interessi delle maggioranze, comunque contraffacendo costantemente la verità. Verità di cui invece sono i naturali rappresentanti gli accademici abitatori delle torri d'avorio, cioè dei campus suddetti, destinati nel loro inesauribile radicalismo a cercare, senza mai trovarlo, il compenso alla percezione di una propria sottile ma non meno reale marginalità.

E allora ben venga anche l'Italian Theory, se serve a fornire nuovo combustibile al radicalismo dell'Ivy League. Come italiani non possiamo che rallegrarci che sia giunto anche il nostro turno. Ma allenati come pochi alle delusioni della storia, per favore non montiamoci la testa.

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