Nell'ascesi monastica la lotta contro quell'accidia che permea il nostro presente. «Altissima povertà» di Giorgio Agamben e «Religione all'italiana» del sociologo Franco Garelli Declinata la pratica della confessione, resta un sacramento ribattezzato con il nome di «riconciliazione» Reagire al cinismo immobile, a una tonalità emotiva priva di fiducia, è l'impegno che caratterizza gli uomini «di buona volontà»
«E ora, che cosa sei disposto a fare?», così, in un lago di sangue, un agonizzante Jimmy Malone (alias Sean Connery) interpellava l'amico Eliott Ness (Kevin Costner), in una scena degli Intoccabili di Brian de Palma. Per ottenere qualcosa di importante (l'arresto di Al Capone, in quel caso), occorre saper rinunciare a qualcosa d'altro, qualcosa per cui vale la pena dare la vita. «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà» (Marco 8,35), recita un detto evangelico che assomiglia quasi a una massima zen. La rinuncia è cifra del ribaltamento dei valori e, nel caso specifico cristiano, è la massima valorizzazione dell'infimo. Nella sua versione radicale, la rinuncia è il dono della propria vita al servizio degli ultimi, e il discorso della montagna ne è la celebrazione sublime.
Nel corso della sua storia, il cristianesimo ha svolto una funzione fondamentale sia nell'elaborare questa forma di vita, sia nel tradirla. Come spesso succede, l'istanza di libertà si trasforma facilmente nel suo contrario. Lo aveva ben chiaro Dostoevskij con l'allegoria del Grande Inquisitore. E certo è questo uno dei messaggi che si possono cogliere dall'ultimo volume di Giorgio Agamben riguardante il progetto dell'homo sacer. Un progetto, va detto, tra i più ambiziosi nel panorama filosofico contemporaneo, iniziato nel 1995 e sviluppatosi, con complicati andirivieni editoriali, in quattro volumi di sei tomi complessivi, di cui questo - Altissima povertà. Regole monastiche e forme di vita (Neri Pozza, pp. 190, euro 15) - è il penultimo. Vi è un punto importante nella riflessione di Agamben, che servirà a comprendere un fenomeno vicino all'esperienza di ciascuno, e perciò stesso di massima rilevanza politica.
Prendiamola alla lontana. La caratteristica forse più deleteria, per quanto meno evidente, della vita sociale occidentale contemporanea, in particolar modo nelle sue manifestazioni religiose, è l'accidia. Fin dalle origini dell'era cristiana, l'accidia fu introdotta nell'elenco dei cosiddetti vizi capitali, che il catechismo preconciliare faceva mandare a memoria (assieme al «chi è Dio» e a un mucchio di altre cose). La lotta contro l'accidia, che potremmo definire una tonalità emotiva sfiduciata nei confronti della salvezza, è l'ufficio perspicuo degli uomini di fede (gli «uomini di buona volontà»): l'accidia non è semplicemente pigrizia, è slegame, cinismo immobile, tecnicizzazione della solidarietà. Già l'ebraismo dei «padri» sanzionava l'accidia come elemento discriminante: «Chi non studia merita la morte», diceva il pur mite rabbi Hillel (Pirqé Avot, I,13), come a dire: chi non sente il bisogno di modificare lo stato di cose in cui vive, non merita di vivere. E ancora rabbi Jaqov: «Se uno cammina per strada studiando, e interrompe il suo studio ... la Scrittura lo considera come uno che mette in pericolo la sua vita» (Pirqé Avot, III,9).
L'accidia mette in pericolo la vita, appunto: in questo senso è una questione politica, se politica è l'arte del viver bene. Tra coloro che provarono a realizzare quest'arte, vi furono i primi monaci, che fondarono l'ideale di fuga dal mondo come anticipazione e realizzazione della fine del mondo. In tal caso la disponibilità a rinunciare a tutto coincide con una forma di vita estrema che, come si diceva, ribalta i valori. Rinunciare a tutto significa guadagnare tutto.
Per questo l'accidia, il venir meno di una fedeltà assoluta, equivale a mettere a serio rischio la sopravvivenza: perché cedere al sonno è segno di stoltezza, come sanno bene le povere vergini della parabola, con i loro stoppini esausti (Matteo 25,1-13) e perché la veglia è il luogo del monaco, il luogo della sentinella che - come faceva Antonio - in mancanza d'altro trova occasione di leggibilità nel grande libro del mondo e non si lascia incantare dalle sirene soporifere della comodità. Per questo i monaci stavano scalzi, vivevano in celle, con una pietra per cuscino, mangiando poco e male. La rinuncia non è mai soltanto rifiuto o disprezzo: essa è anche e soprattutto disponibilità. Strano che ad Agamben sia sfuggita la riflessione di un teologo grande e irregolare, Franz Overbeck, che in una conferenza del 1867 pose alcune questioni fondamentali sul monachesimo, non da ultimo la stesura delle regole come segno di decadenza (Origini del monachesimo, Medusa 2006, pp. 67, euro 9,50). L'istituzionalizzazione della rinuncia equivale ad alimentarne la controproduttività, direbbe Ivan Illich.
Chi ha saputo di recente porre in termini concreti e attuali queste che possono sembrare questioni annose e distanti dai problemi che ci assillano, è stato il sociologo Franco Garelli (Religione all'italiana. L'anima del paese messa a nudo, il Mulino, pp. 250, euro 17). Mai come oggi, si legge nemmeno troppo tra le righe di questa rigorosa inchiesta, è urgente interrogarsi sulla possibilità della religione. Il cristianesimo è divenuto in molti casi concrezione sociale dell'accidia, ritualizzazione amorfa di una sfiducia mascherata da buone maniere. Non si tratta dell'ennesima denuncia delle chiese vuote o di quello che Garelli chiama il pick-up religioso, cioè il gran supermercato delle salvezze possibili; si tratta soprattutto dell'evaporazione del senso del peccato.
Secondo quanto rilevato dalle indagini dell'equipe di Garelli, quasi la metà dei cattolici italiani praticanti non si confessa mai. Indice di questo stand-by religioso non è appunto lo svuotamento delle chiese, ma dei confessionali. Resta la presenza un po' enigmatica e inquietante di un sacramento, ribattezzato «riconciliazione», che assume quasi la forma di un monito arcaico, un luogo che ammutolisce dopo esser stato per secoli il bisbigliante ricettacolo della disciplina e della morale comune. Troppo facile accollare a questa crisi esclusivamente le debolezze umane dei preti (il «quante volte» riferito agli atti impuri con pornografica meticolosità). L'evaporazione del peccato è un fenomeno ben più complesso e diffuso e ha a che fare probabilmente con la trasformazione di una forma di vita, e quindi di una modalità di rinuncia che non è più avvertita come effettuale.
Garelli sottolinea come uno dei fattori determinanti della crisi del sacerdozio (quindi in generale dei sacramenti) sia la non disponibilità alla rinuncia. È sempre più difficile rinunciare al rapporto di coppia, ai figli, ai beni di questo mondo. «Che cosa sei disposto a perdere?» Oggi è particolarmente difficile rispondere. Forse perché in epoca di svuotamento generalizzato di portafogli e di futuro, è già tanto se si presta attenzione a tale domanda. Ma nella filigrana di una crisi assunta a norma e nelle ricette per la ripresa sempre procrastinata, abbiamo oggi come non mai l'occasione di cogliere una dinamica ideologica perversa, qualcuno direbbe idolatrica, che diffonde un senso di depauperamento e sfinitezza, cioè di accidia, sotto le fattezze dei saldi straordinari o delle grandi convenienze, a cui è quanto meno urgente opporre una sana e concreta resistenza.
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