domenica 26 febbraio 2012

CAPITALISMO E STATO. TAINO D., Neo-statalista, rigido, legato al potere. Il capitalismo ha mutato anima? IL CORRIERE DELLA SERA, 23 gennaio 2012

Non ha mai avuto una faccia tanto brutta e incattivita come oggi, il capitalismo. In pochi anni, è invecchiato e si è irrigidito. Un tempo sollevava speranze, oggi non attrae più e qualche volta repelle. Non è che sia in crisi. È che è così potente da essere insopportabile. Vittima del suo stesso successo, dilagante dopo il crollo del socialismo reale, è diventato il contrario di ciò che ha sempre predicato: invece di liberare forze, come spesso nella storia ha fatto, oggi tende a schiacciarle, a limitare lo sviluppo del nuovo oppure a mangiarselo subito. La crisi finanziaria esplosa nell'autunno del 2008 è stata probabilmente la porta che lo ha introdotto in una sua fase nuova, quella della distruzione, invece che della creazione, della ricchezza.


Le proteste più evidenti contro il capitalismo di questo inizio di secolo sono quelle dei movimenti Occupy... Wall Street, la City e tutti i simboli del denaro. E quelle delle manifestazioni dei cosiddetti 99% che si oppongono alle ricchezze, ai privilegi, alle stock option dell'1% che è la classe globale, il cosiddetto Davos-Man cosmopolita, molto ben connesso con il potere, con le sue belle case, i jet privati e le mogli-trofeo. Ma, dietro le manifestazioni pubbliche, il disagio dell'Occidente contro i nuovi capitalisti è molto più vasto: perché, per la prima volta, la classe media sente che le ricchezze accumulate e le differenze sociali sono ingiuste, non meritate, non frutto di imprenditorialità, di premio del lavoro ma risultato di rendite e di partecipazione ai network del potere e del denaro. Se il capitalismo diventa un club chiuso, ha finito di essere la forza motrice del mondo che è stato per decenni.
La consapevolezza di questa nuova fase storica è forte soprattutto nei santuari del capitalismo moderno, anglosassoni. Da alcuni giorni, il quotidiano finanziario della City di Londra, il Financial Times, dedica articoli e articoli a un dibattito che va sotto il marchio Capitalism in Crisis. Ieri, il settimanale che in oltre 200 anni di storia si è caratterizzato come il maggiore sostenitore del liberismo, il londinese Economist, ha dedicato la copertina alla crescita del capitalismo di Stato. Succede che i vecchi paradigmi sui modelli di capitalismo si sono come dissolti, sembrano non avere più senso: contrapporre il modello anglosassone a quello renano, di gran moda fino per vent'anni, fa sorridere, oggi che sulla scena il modello crescente è quello centralizzato cinese. In discussione è l'anima stessa del capitalismo. E la domanda che sale, a Occidente come a Oriente, è questa: c'è ancora una relazione creativa tra capitalismo e mercato oppure il primo ha appiattito se non azzerato il secondo?
La globalizzazione ha portato sotto l'ombrello capitalista gran parte del mondo: la Cina, l'India, il Vietnam e quasi tutta l'Asia, oltre che molti altri Paesi un tempo attratti dalle economie pianificate o da modelli caotici, dal Sudafrica al Brasile. In questi Paesi, però, non è stata l'economia aperta a trionfare, il libero gioco degli individui che alla fine risulta nella benefica mano invisibile del mercato. Per costruire le loro economie, spesso gli ex Paesi poveri ricorrono alla creazione di enormi aziende controllate dallo Stato - o dal regime come nel caso della Cina. Potenti conglomerate che usano denaro pubblico e agganci politici per farsi spazio nelle economie domestiche e internazionali. Sono le società dell'energia come la saudita Aramco, la russa Gazprom, l'iraniana Nioc, la Qatar Petroleum, la Petrochina che ormai dominano il business del greggio e del gas. Sono le telecom, le imprese di costruzione, le banche, le società minerarie dei Paesi emergenti che, appoggiate e finanziate dai loro governi, stanno dando l'attacco ai mercati internazionali a suon di acquisizioni.
Il fenomeno non è in sé nuovo. Anche la East India Company britannica fu, più di tre secoli fa, sostenuta dalla corona britannica nella sua espansione in Asia e fu funzionale alla nascita del capitalismo. Nuovo è il fatto che queste portentose imprese - capitaliste nella logica ma di Stato nella proprietà - stiano attaccando il modello privato conosciuto finora. E con notevoli successi. A livello globale, nell'energia oltre il 65% delle imprese (in valore) è controllato dallo Stato; nei servizi come acqua, telefoni, luce, oltre il 50%; in finanza il 35% e via dicendo. Tra i maggiori dieci gruppi internazionali per capitalizzazione, già quattro sono controllati da governi: la cinese Sinopec, la China National Petroleum Corporation, la rete elettrica della Cina, le Poste giapponesi. L'80% del valore della Borsa cinese è fatto da imprese pubbliche. In Russia siamo al 62% e in Brasile al 38%. Il legame tra capitalismo e privato, in altri termini, non è più un fatto scontato, anzi: nei Paesi emergenti il capitalismo è una delle facce dello Stato (spesso totalitario). Non solo: il modello cinese sta prendendo piede in molte altre parti del mondo, per esempio in Africa e nell'America Latina.
Il fatto più straordinario è però che lo Stato sia sempre più determinante anche in quella che una volta era la terra del libero mercato, l'Occidente. La crisi finanziaria ha mostrato al mondo l'esistenza di imprese - soprattutto banche ma non solo - così grandi, intrecciate a infiniti settori dell'economia e così potenti da rappresentare elementi di sistema, cioè qualcosa che è privato nella forma (e nei profitti) ma ha una caratteristica pubblica, perché se fallisce crea disastri a tutti. Sono le cosiddette imprese too-big-to-fail, troppo grandi per fallire, che di fatto hanno imposto a tutti l'obbligo di salvarle con denaro dei contribuenti anche quando dovrebbero finire a gambe all'aria.
In altre parole, il capitalismo è sempre più intrecciato allo Stato, a Oriente come a Occidente, nei Paesi poveri come in quelli ricchi. Ciò significa, nella grandissima parte dei casi, corruzione, scambi di favori tra politica e business, formazione di élite cooptate e non fondate sul merito e soprattutto pratiche brutali per tenere fuori dagli affari chi non ha protezioni, con conseguenti barriere alte all'ingresso e limitazioni della creatività e dell'innovazione. In sintesi, nei Paesi emergenti il modello cinese avanza. E nei Paesi ricchi siamo di fronte a un capitalismo che premia poche oligarchie, cresce sulle rendite e così facendo distrugge il capitale, cioè il lavoro, tanto che la quota di reddito che va ai salari rispetto a quella che va alle rendite è in costante calo (in America al 58%, dal 63% medio dei 65 anni precedenti). Un capitalismo che ha sempre meno consenso, che ha perso parte del suo ruolo di arricchimento della società e dunque anche in Occidente ha bisogno dello Stato e della politica per mantenere le sue caratteristiche. Brutto e invecchiato, appunto: se continuerà su questa strada, non riuscirà più a produrre le meraviglie di Google, Apple, Facebook. E spudoratamente anti-mercato.

Nessun commento:

Posta un commento