sabato 20 aprile 2013

SOCIOLOGIA ED ECONOMIA. MAURO MAGATTI, Una bussola europea per la crescita, IL CORRIERE DELLA SERA, 18 aprile 2013


Membro della Ue e parte dell'area euro, l'Italia è, oggi, un Paese a sovranità limitata. Dico questo non per sottolineare un aspetto negativo, ma semplicemente per ribadire i termini entro i quali il sistema politico nazionale si trova oggi a operare. Ricordiamo brevemente cosa c'è alle nostre spalle. Nel novembre 2011 - un tempo che sembra lontanissimo - dietro forti sollecitazioni internazionali ha visto la luce il governo tecnico. In Europa - e non solo - si era molto preoccupati circa gli esiti della crisi. Per questo, era necessario mettere in sicurezza il caso Italia.



Per svolgere questo lavoro, Monti era l'uomo perfetto: dotato di altissima stima internazionale, perfettamente integrato nel disegno di Bruxelles, Monti era l'uomo giusto per spingere una riluttante Italia nel solco di un percorso che assumeva il rigore di bilancio come via d'uscita dalla crisi. Nei primi mesi, il progetto ha funzionato: ad un passo dal default , l'Italia ha riguadagnato credibilità rispetto ai mercati internazionali e, in congiunzione con il ruolo di Draghi alla Bce, si è allontanata dalla zone di massimo pericolo.
Ancora un anno fa, l'intero Paese si sentiva rassicurato dal progetto che Monti gestiva per conto dell'Europa. Oggi, invece, politicamente e economicamente, il Paese è da tutt'altra parte. Che cosa è accaduto da allora?
È accaduto che, in questi 18 mesi, il quadro storico si è profondamente mutato. Il rigore, come criterio per affrontare la crisi, poteva infatti funzionare per quel gruppo di Paesi che si trovava nelle condizioni di mantenerlo: prima fra tutti la Germania. Ma per quelli che avevano un forte indebitamento, con il passare del tempo il rigore si è trasformato in una trappola: oggi, si deve prendere atto che il problema del debito - che veleggia verso il 130% - non è risolto, mentre tutta l'Europa del sud - ma a ruota segue anche la Francia - è spinta verso un vero e proprio baratro economico.
La parabola politica di Monti ha seguito questo mutamento: fedele al progetto per cui aveva preso il timone del Paese, è stato trascinato a fondo nel momento in cui un tale progetto ha mostrato i suoi limiti.
Il punto centrale è che, come la storia insegna, l'uscita dalle grandi crisi finanziarie non è mai solo una questione tecnico-economica. È prima di tutto, e fondamentalmente, una questione politica. E questo perché, al fondo, si deve trovare una via per ristabilire un circuito inceppato, un circuito - quello finanziario - che definisce un sistema di obbligazioni basato sulla fiducia. Solo la politica può agire su questo aspetto.
Lo si vede con chiarezza confrontando il percorso seguito dagli Stati Uniti e dall'Europa in questi anni. Gli interventi della Fed hanno acquistato senso ed efficacia in relazione all'azione e alla autorevolezza del governo americano: è quest'ultimo, infatti, che permette al sistema finanziario di poter assumere che ci sia un pagatore in ultima istanza. Esattamente quello che manca in Europa, dove lo squilibrio esistente tra una moneta unica e la debolezza politica mette a nudo un evidente deficit di sovranità. Che in un momento di crisi come questo è cruciale.
Questa ricostruzione ci riporta alla cronaca di queste settimane. Molte voci - tra cui la Confindustria e la Cei - chiedono con forza un governo autorevole. Si risponde che non ci sono le condizioni. A dire il vero, la posizione di Bersani - fatta la tara dagli interessi di parte - non è del tutto infondata. La proposta del centrodestra sarebbe più ricevibile se accompagnata dal riconoscimento degli errori commessi nel periodo 2008-2011. Cosa di cui non si vede traccia. In tutti i casi, la posizione di Bersani non risolve il problema: se la questione urgente oggi è il nodo europeo, allora si tratta di verificare se, su questo punto, si può stabilire una convergenza che permetta al Paese di ritrovarsi attorno ad una linea politica comune - né di destra, né di sinistra, ma nazionale - che abbia come fulcro il rapporto con l'Europa. Un fulcro costituito da due elementi principali.
Il primo è il superamento di una politica di austerity in favore di una stagione espansiva (che si può pensare solo su scala continentale). Occorre trovare la formula per una sorta di nuovo «Piano Marshall», senza il quale non c'è futuro. Che siano gli euro bond, gli Euro Union Bond o qualunque altra soluzione, la parte ricca dell'Europa ha il dovere di rispondere, nello spirito di una solidarietà che guarda avanti, ai problemi che oggi strangolano ampie zone del Vecchio Continente. Non per mera munificenza.
Ma per una visione politica - senza questa scelta sarà l'idea di Europa a morire - e per la realistica ragione che senza questo tipo di azione è il futuro di tutti che sarà messo a repentaglio.
Il secondo elemento è che questa nuova stagione non può costituire la scusa per ritardare quel processo di modernizzazione di cui molti Paesi, compresa l'Italia, necessitano per stare nella globalizzazione. La componente più arretrata dell'Unione deve riconoscere i propri errori, dichiarando la disponibilità a proseguire sulla strada delle riforme senza le quali non si può pensare di reggere il XXI secolo. E negoziando, di conseguenza, i vincoli sulla propria azione futura.
Ciò che può forse accomunare forze politiche molto eterogenee attorno ad un governo è la decisione di lavorare insieme ad una nuova linea europea che spezzi il giogo che sta distruggendo l'economia reale di questo e altri Paesi. Per far questo occorre un grande patto nazionale e occorre fare in fretta: il tempo, in questo caso, è decisivo. Per come è oggi la situazione, tra un anno potrebbero essere tardi.

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