mercoledì 17 aprile 2013

RICCHI ITALIANI ALLE ANTILLE. GIORGIO RUFFOLO, Una vergogna chiamata off-shore, L'ESPRESSO, 8 novembre 2010

I am lost in paradise, cantava nostalgicamente Johanna Wang in una canzone divenuta famosa: mi sono smarrita in paradiso. Suggerirei ai governi di adottarla all'apertura del prossimo G20, quando si tratterà di affrontare il tormentato problema dei paradisi fiscali.
Da quando il mondo è stato scosso dalla più violenta crisi economica degli ultimi ottant'anni si susseguono le lamentazioni e le indignazioni sul ruolo che nella crisi hanno svolto i circa 50 paradisi fiscali (anche il loro numero è controverso) esistenti nel mondo, i quali - cito da una recente risoluzione del Parlamento europeo - "incitano a praticare l'evasione fiscale, la frode fiscale e la fuga dei capitali".

Tanto vibrata la denuncia, quanto fiacca e irresoluta la risoluzione: l'Unione, afferma l'europarlamento, "condanna con forza (tipica espressione usata da chi è consapevole di mancare di forze, ndr.) il ruolo svolto dai paradisi fiscali". Che cosa propone il Parlamento europeo all'Unione? Assolutamente, niente: "L'Unione è invitata a rafforzare la sua azione e a prendere misure concrete e immediate, come, ad esempio, sanzioni contro i paradisi fiscali" (!). Immagino che i signori dei paradisi avranno tremato leggendo queste righe.

In un altro progetto di risoluzione, presentato da Cohn Bendit e Rebecca Harms a nome del gruppo dei Verdi si leggono considerazioni più sensate. Si constata l'impotenza della denuncia e il vuoto della volontà. In particolare, si rileva la scandalosa assurdità delle conclusioni dell'Ocse che ha cancellato dalla sua "lista nera" la maggior parte dei paradisi contro la semplice promessa di aderire ai principi relativi agli scambi di informazione: come dire, scagionare i delinquenti mafiosi da ogni accusa in cambio della loro assicurazione di comportarsi bene.

Ma vediamo le dimensioni del fenomeno più crudo che si nasconde dietro i paradisi. Che non è la pur gigantesca evasione fiscale. E' la criminalità internazionale. Qualche cifra.


Il prodotto lordo mondiale (Plm) ammonta a 4 mila miliardi di dollari. Il Plc, il prodotto lordo criminale, a mille miliardi, un quinto del totale.
Di che si tratta? Di tutto: droga, racket, rapimenti, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione, traffico di rifugiati, di oggetti d'arte, di specie protette, di organi umani...
Il prodotto di questo enorme giro di affari bisogna, ovviamente, riciclarlo. E a questo si provvede grazie all'anonimato dei paradisi, che si sottraggono ad ogni seria informazione. Si calcola che il riciclaggio di denaro sporco ammonti a 600 miliardi di dollari all'anno. Il giro d'affari dei paradisi fiscali è di 1.800 miliardi di dollari.

Le società off shore presenti in paradiso sono 680 mila. Le banche, attraverso le loro filiali sono, dichiaratamente, 10 mila. Ma esistono sistemi bancari paralleli che operano completamente al di fuori del sistema ufficiale, sfuggono anche agli obblighi formali e agli ordinari strumenti di vigilanza e controllo delle autorità competenti. Questi assumono denominazioni folkloristiche. In Cina si parla di sistema Chop Shop. In India di sistema Hundi, in America latina di Stash house.

L'Inghilterra è senza dubbio la madre di tutti i paradisi. La finanza britannica domina più di 20 paradisi dell'arcipelago off shore, dalle lontane isole Cayman alla vicinissima isola di Man. Ed è istruttivo constatare come alle denunce frementi di Blair del terrorismo, definito come la guerra del secolo, corrisponda il protettorato britannico dei 20 casinò che lo finanziano.
La doppiezza politica in tema di criminalità internazionale non è però una prerogativa britannica. Non vi si sottrae certamente l'istituzione che più di ogni altra al mondo ha a che fare col paradiso: la Chiesa cattolica. Nel Vaticano opera una delle banche più misteriose del mondo, l'Istituto delle Opere di Religione, Ior. Le sue operazioni sono identificate solo attraverso un codice. Non si rilasciano ricevute, non esistono assegni intestati allo Ior. I suoi bilanci e i suoi investimenti sono noti solo al papa, al Collegio dei cardinali e, naturalmente, alla direzione e ai revisori dell'istituto.

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