lunedì 14 maggio 2012

TEMPO ED ECONOMIA. FUSARO D., Essere senza tempo nel 'tic-tac' del capitalismo. Intervista di Marco Sferini, da LANTERNE ROSSE


Abbiamo intervistato Diego Fusaro, già autore del successo “Bentornato Marx!”, sul suo nuovo lavoro editoriale: “Essere senza tempo”, sempre edito da Bompiani e che consigliamo alle nostre lettrici e ai nostri lettori


Essere senza tempo potrebbe sembrare un paradosso: in fondo il tempo lo si vive, che lo si voglia o no. Eppure tu dici che il tempo in qualche modo ci viene rubato, sottratto. Da chi, da cosa?

Tra le molteplici definizioni che si possono attribuire al nostro specifico momento storico ve n’è una che forse, meglio delle altre, coglie il suo spirito: il nostro presente è l’epoca della fretta, un “tempo senza tempo” in cui tutto corre scompostamente e senza fermarsi mai, impedendoci non soltanto di vivere pienamente gli istanti presenti, che si succedono vorticosamente, ma anche di riflettere serenamente su quanto accade intorno a noi. Troppi eventi vanno accumulandosi in lassi di tempo sempre più ristretti, determinando, in noi che viviamo questa accelerazione di ogni settore dell’esperienza (dall’ambito della vita quotidiana a quello lavorativo, dai processi di apprendimento al mondo delle informazioni), una sensazione spaesante e, insieme, irritante: non abbiamo mai tempo sufficiente per tutto quello che dovremmo o vorremmo fare. La modernità, con la sua passione per il futuro, aveva scientemente scelto la strada dell’accelerazione dei ritmi in nome dell’avvenire: il presente era inteso come punto di passaggio in vista di un futuro diverso e migliore. Le esperienze rivoluzionarie sono l’esempio più significativo di questa passione futurologica: pensiamo alla Rivoluzione francese e a quella bolscevica, alla loro “passione futurologica”. Oggi invece, dal 1989, con il crollo del Muro di Berlino, il futuro come orizzonte progettuale si è estinto: non viviamo più in nome del futuro, ma in nome del presente stesso, che tende a farsi intrusivo, totale, onnipresente, eterno. La freccia del tempo storico pare essersi bloccata lungo il suo tragitto: la storia stessa, con il suo incessante fluire, sembra essersi improvvisamente congelata. Questa eternizzazione del presente si accompagna a una raggelante desertificazione dell’avvenire. E non di meno continuiamo ad affrettarci. È questa l’assurdità del nostro tempo, il suo più grande paradosso. Non c’è più una mèta futura e, non di meno, continuiamo a correre. Verso dove? A che serve questa fretta carica di presente? È questa la domanda fondamentale da cui muove il mio Essere senza tempo. Il segreto della nostra accelerazione nichilistica e postmoderna sta secondo me in un sistema di produzione – quello capitalistico – che deve garantire efficientismo, produttività, profitti sempre più rapidi e al tempo stesso non ha più bisogno del futuro, e deve anzi scongiurarlo come possibilità del diverso, dell’essere-diversamente-da-come-si-è. Rimozione del futuro e fretta esistenziale e produttiva possono così enigmaticamente convivere nel quadro di un’epoca che ha smesso di credere a Dio ma non al Mercato.

Il tempo passa in modo diverso per chi è ricco e per chi è povero, per chi sfrutta e per chi è sfruttato, per chi è imprenditore e per chi è operaio. Tutte categorie che hanno un continuismo logico nel sistema capitalistico. Possiamo dire che il tempo è relativo soprattutto in termini sociali e quindi in relazione allo “status” sociale che ognuno di noi si trova a vivere?

Il tempo è uno per tutti, ma non tutto lo abitano nello stesso modo. Anzi. La società descritta mirabilmente da Marx è una società in cui accanto alla nota “lotta di classe” vi è anche, come sua ulteriore determinazione, una non meno accanita “lotta per il tempo”. Nel Capitale Marx mostra in maniera stupefacente come il capitale tenti in ogni modo di vincere sul piano temporale, dapprima allungando il più possibile la giornata lavorativa, al di là di ogni umana sopportazione. Successivamente, trovando dei limiti fisici invalicabili, il capitale rinuncia all’allungamento illimitato della giornata lavorativa, ma non rinuncia al suo sogno perverso di dominio totale del tempo e impone di produrre in minor tempo ciò che prima si produceva in più tempo: è il noto passaggio dal “plusvalore assoluto” al “plusvalore relativo”. Ciò che prima si produceva, supponiamo, in 10 ore, adesso bisogna produrlo in 6, in ciò aiutati dai macchinari: la produzione viene accelerata e, con essa, vengono stravolti i ritmi dell’esistenza umana, costretta ad adeguarsi a quelli ultrarapidi delle macchine. Del resto proprio Marx diceva nei Grundrisse: “economia di tempo, in questo si risolve in ultima istanza ogni economia”. Anche se ci si pone sul piano della temporalità accelerata, si può sostenere che, nell’ottica marxiana, la merce è la “cellula originaria” della società capitalistica, e dunque il necessario punto d’avvio dell’indagine del primo libro del Capitale. Se infatti, sul piano del valore, la merce implica al livello di astrazione più elevato la contraddizione di “valore di scambio” e di “valore d’uso” ed è il presupposto e, insieme, il risultato – e dunque il presupposto sempre e di nuovo posto – della produzione capitalistica, il punto da cui essa muove e quello da cui continuamente riparte (la società capitalistica è un’immane produzione e circolazione di merci!), sul piano della temporalità la “forma-merce” racchiude già, nella sua stessa essenza, il principio dell’accelerazione come via privilegiata per ricavare il profitto. Il valore di una merce viene a dipendere dal “tempo di lavoro socialmente necessario” per produrla, ossia – più genericamente – dal tempo di lavoro cristallizzato in essa: con la conseguenza decisiva per cui, a un alto grado di astrazione, quanto più rapidamente sarà prodotta, tanto più si potrà tenere basso il suo prezzo, battendo la concorrenza. Ecco svelato l’arcano dell’odierna accelerazione senza futuro e della fretta nichilistica che elettrizza le nostre esistenze. Il capitalismo globale non ha bisogno del futuro, perché essi potrebbe far emergere un mondo diverso, non capitalistico, ma ha sempre più bisogno della velocizzazione dei ritmi della produzione e del consumo (trovando nella “moda” uno degli stratagemmi più efficaci per far invecchiare rapidamente le merci nuove).

Nel tuo nuovo lavoro, dopo il successo di “Bentornato Marx!”, come descrivi la nozione stessa di “tempo”?


Diceva Agostino nelle Confessioni che sapeva bene cosa fosse il tempo finché non doveva spiegarlo a qualcuno. E in effetti non aveva tutti i torti, trattandosi di uno dei concetti, in assoluto, più scivolosi e sfuggenti e, non di meno, per il sentire comune, più intuitivi e scontati. Ma, come diceva Hegel, ciò che è noto, proprio perché è noto, non è conosciuto. Lo stesso Kant, nel XVIII secolo, notava il paradosso per cui non si può parlare del tempo se non “spazializzandolo”, cioè riconducendolo a metafore spaziali, e dunque – ecco il paradosso dei paradossi! – riportandolo al suo opposto (lo spazio, appunto). In Essere senza tempo cerco di tratteggiare una genesi storico-sociale di tempo, soprattutto di tempo storico, in ciò aiutato anche dalle analisi di storici come Braudel e Koselleck. L’aspetto più interessante è che l’uomo abita da sempre nel tempo storico ma non sempre l’ha tematizzato. Dirò di più: l’idea stessa di una storia al singolare, lineare, diretta “a senso unico” dal passato al futuro nasce soltanto con l’Illuminismo, sull’onda dell’accelerazione della storia prodottasi nella seconda metà del XVIII secolo grazie a processi come la Rivoluzione industriale in area inglese o la Rivoluzione francese. Si trattava di processi che attestavano inconfutabilmente una velocizzazione della sequenza temporale: sempre più eventi si addensavano in lassi di tempo più contratti, e questo tanto sul versante socio-politico (la Francia rivoluzionaria), quanto su quello tecnico-industriale-scientifico (l’Inghilterra). Si cominciò a vivere nella convinzione che fosse la totalità stessa delle esperienze umane, e quindi la Storia – come si cominciò per la prima volta a dire – ad accelerare il proprio cammino. La passione per il futuro degli Illuministi, la loro dialettica dell’impazienza, giocò naturalmente un ruolo imprescindibile: per un verso, essa trovò in quei processi la conferma della propria tensione futuro-centrica, poiché la Storia sembrava avvalorare l’idea di una corsa unilineare verso il futuro; per un altro verso, essa favorì attivamente quella corsa accelerata, perché fu la stessa ansia futurologica illuministica a promuovere in ogni modo la trasformazione e la velocizzazione dei ritmi, nella convinzione che la ragione si fosse risvegliata tardi, dopo secoli di sonno e di tenebre, e occorresse ora allungare il passo. Come disse Voltaire: “siamo giunti tardi in tutto, l’ho detto e lo ridico. Recuperiamo il tempo perduto!”. La fretta fu l’esito più immediato, e più direttamente percepito, dagli uomini del tempo: ad esempio, il caffè si diffuse in maniera straordinaria con l’Illuminismo – a tal punto da diventarne un’immagine simbolica, si pensi alla rivista “Il caffè” di Verri – perché rendeva i corpi agili e scattanti, produttivamente borghesi, nemici dell’ozio in ogni sua declinazione, e al tempo stesso simboleggiava una ragione desta e lucida.

Ricordo una canzone di Lotta Continua che diceva: “L’unica cosa che ci rimane è questa nostra vita, allora compagni usiamola bene prima che sia finita…”. Qui il tema del tempo fa riferimento all’intero corso di una esistenza che viene spesa per una battaglia che veda il superamento del capitalismo. C’è chi resta deluso dalla brevità della vita per una lotta così lunga come quella della conquista di una società non più dominata dal capitale e dal profitto. C’è chi invece la spende minuto per minuto, come Enrico Berlinguer (e si potrebbero fare migliaia di esempi di donne e uomini comunisti, socialisti, libertari che hanno sacrificato la loro vita per una società non solamente migliore, ma alternativa a questa in cui ancora viviamo), e lascia una traccia per coloro che verranno. In questi diversi apprendimenti delle coercizioni che la nostra esistenza ci pone, quanto il “fattore tempo” è condizionante sia emozionalmente che politicamente?

Non so se volutamente oppure no, la canzone in questione tocca un tema nobile e antico, che ad esempio troviamo già nelle Lettere a Lucilio (I, 3) di Seneca: omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est. Tutte le cose ci sono estranee e solo il tempo ci appartiene veramente. Ancora Montaigne, agli albori della modernità, si orientava in una prospettiva analoga, in cui il tempo veniva inteso come un possesso pienamente umano. Secondo la formula degli Essais di Montaigne, “le temps me laisse. Sans luy rien ne se possede”. Il problema è che la concezione tradizionale del tempo come nostro unico possesso tende a essere annullata, o comunque ridimensionata, dall’esperienza travolgente della modernità illuministica. In forza dell’accelerazione del corso storico e della fretta che ne scaturisce sul piano delle esistenze concrete, il tempo si autonomizza e comincia, per ironia della sorte, a diventare padrone della nostra esistenza, costringendoci ad adattarci ai suoi ritmi accelerati. Esso diventa, tra tutte, la realtà di cui meno siamo padroni. Quand’anche fosse impiegato nel più giudizioso e parsimonioso dei modi, il tempo sarebbe comunque troppo poco e qualitativamente troppo veloce: e noi non smetteremmo di vivere con il “fiato corto”, travolti dall’esperienza della fretta come ineludibile abbreviazione dei tempi della vita. Nel libro ho ricostruito come la politica, soprattutto quella novecentesca, si sia configurata come una politica del tempo, una “cronopolitica”: Hitler, ad esempio, era ossessionato dalla mancanza del tempo necessario per portare a compimento il suo folle progetto ed era convinto che la sua missione consistesse nel far convergere i tempi della sua vita con quelli del mondo. Lo stesso Lenin attuò una “cronopolitica”, se si considera che nel 1917 in verità vi furono due rivoluzioni in Russia: quella di febbraio, “borghese”, e quella di ottobre, “comunista”. Nel giro di pochi mesi – ecco il punto – si passò, almeno nella coscienza dei Bolscevichi, dal modo di produzione capitalistico a quello comunista! La modernità impone tempi accelerati: ciò non toglie, ovviamente, che si possa tentare di spendere nel migliore dei modi possibili il poco tempo di cui disponiamo. Il libro è anzi un programmatico invito a tornare in possesso dei ritmi della nostra vita e della dimensione del futuro come luogo di progettazione e di emancipazione: l’“essere-senza-tempo” a cui allude il mio lavoro è esattamente questa duplice assenza (che caratterizza tristemente il nostro mondo postmoderno) di tempo per agire e di “tempo futuro” come dimensione – reale ma anche simbolica – di cambiamento. La filosofia gioca in questo un ruolo essenziale: essa è “pazienza del concetto”, mediazione, riflessione pacata e in totale opposizione ai ritmi elettrizzanti del mondo, ma è anche “ontologia-della-speranza”, critica dell’esistenza e programmazione di futuri migliori. Diceva il grande Ernst Bloch che “pensare significa oltrepassare”, spingersi oltre le angustie del proprio tempo per dirigersi – con il pensiero e con l’azione – verso un domani migliore. Direi che il nostro compito oggi è quello di rallentare i ritmi di un mondo in cui la velocità scatenata è puramente autoreferenziale, volta al produttivismo e alla creazione di profitto (e in questo sono di grande interesse posizioni come quelle dei sostenitori della “decrescita”, come Latouche), e, insieme, riaprire la dimensione del futuro per “costruire nell’azzurro” (Bloch) un mondo migliore che ancora non c’è ma di cui sentiamo il bisogno.

Se dovessi presentare il tuo libro “Essere senza tempo” con una frase di un filosofo, quale pensatore sceglieresti e quale sua frase?

Userei due frasi. La prima è di Fichte (La missione dell’uomo, 1800): “il mio animo non può trovar posto nel presente né riposarvi un attimo, vien respinto da esso irresistibilmente; la mia intera vita scorre incessantemente verso il futuro e il meglio”. Fichte riassume qui in modo meraviglioso l’intera esperienza dell’uomo moderno, l’accelerazione dei ritmi in vista di un futuro migliore, in cui possano finalmente trovare cittadinanza nella realtà i sogni di emancipazione e di libertà maturati in un presente inteso – l’espressione è di Fichte – come “epoca della compiuta peccaminosità”, ossia abitato da contraddizioni di ogni tipo (asservimento, alienazione, spaesamento, precarietà, ecc.). Nel presente non ci si sente a casa e, per questo, si pensa e si agisce in nome del futuro, cercando il più possibile di accelerarne l’avvento. Credo che oggi abbiamo il dovere, con il grande Fichte, di recuperare la passione per l’avvenire e la consapevolezza che il mondo così com’è non è un dato naturale-eterno, ma può essere cambiato. La seconda citazione è di Marx (Salario, prezzo e profitto, 1865): “un uomo che non dispone di nessun tempo libero, che per tutta la sua vita, all’infuori delle pause puramente fisiche per dormire e per mangiare e così via, è preso dal suo lavoro per il capitalista, è meno di una bestia da soma. Egli non è che una macchina per la produzione di ricchezza per altri, è fisicamente spezzato e spiritualmente abbrutito. Eppure, tutta la storia dell’industria moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda degradazione”. Marx smaschera qui, con straordinaria nitidezza di profilo, la logica illogica della produzione capitalistica e, potremmo dire, dell’odierna fretta nichilistica, svuotata di ogni passione progettuale. Il sistema capitalistico deve continuamente generare accelerazione e fretta, perché il segreto dell’economia è l’economia del tempo: ciò si ripercuote perversamente sulla nostra esistenza, sul nostro perenne e snervante “essere-senza-tempo” nei due sensi prima ricordati. Ma un uomo che non disponga di tempo libero e che non abbia il futuro davanti a sé come luogo di progettazione, non è un uomo libero, è in tutto e per tutto uno schiavo. De te fabula narratur! È, per l’appunto, la nostra condizione odierna. Il precariato non è solo una forma lavorativa – la più meschina di tutta la storia umana, dai Sumeri ad oggi! – ma è una condizione epocale, la condizione del nostro tempo, in cui il rischio, la precarietà, la liquidità, l’incertezza sono tratti fondamentali di un’unica costellazione che non esiterei a definire come desertificazione dell’avvenire nella cornice di un presente (capitalistico) che aspira a farsi eterno. Di qui credo che si debba muovere per reagire all’essere-senza-tempo che ci sovrasta minacciosamente. Con buona pace di Sloterdjk, il mondo non va “sopportato”: va cambiato.

Nessun commento:

Posta un commento