venerdì 13 aprile 2012

GEOGRAFIA E CAPITALISMO. ARMINIO F.,Geografo in campagna. Intervista con Franco Farinelli, IL MANIFESTO, 11 aprile 2012

La modernità è finita, perché la rete ha sancito la fine dei suoi pilastri: lo spazio e il tempo. Per questo è finito anche il capitalismo. Incontro, in una masseria di Bisaccia, con il geografo Franco Farinelli


Portare un importante studioso in una masseria. Portare architetti, insegnanti, gente di teatro, disoccupati, pensionati, nevrotici senza scampo, portare l'umanità che c'è adesso a convenire intorno ad alcune domande, o forse una sola: come andare avanti, adesso che il mondo moderno è morto? «Terrascritta» è organizzare incontri, costruire comunità provvisorie e metterci al centro le nostre percezioni più che le nostre opinioni. Stare insieme per guardare il mondo, con stupore e meraviglia, sapendo che non sappiamo mai dove ci conduce, sapendo che comunque ci conduce sempre da qualche parte.
Quello che ho sentito ascoltando Franco Farinelli a Bisaccia è questo: la carriera dello studioso è solo un aumento della perplessità. Più si indaga il mondo e più ci si accorge che tutto ruota intorno ad un osso che nessuno ha mai visto. Forse la crisi della politica nasce proprio da questo non potersi declinare come scienza debole. La politica è costretta a darsi arie di sapere come stanno le cose e dove le si vuole condurre. Oggi le persone hanno bisogno di ritrovarsi esponendo le proprie debolezze. Hanno bisogno di luoghi di cura, che non siano ovviamente gli ospedali, luoghi di cura in cui l'avventura di stare al mondo dà ad ognuno un filo di clemenza per l'avventura degli altri, e prima ancora per lo stato dei luoghi.
La poetica del Gal Cilsi e del Parco letterario Francesco De Sanctis che ha organizzato il primo incontro di «Terrascritta», potrebbe essere proprio questa: non tenere separate le cose. Non pensare che il problema di un contadino sia solo allevare e vendere le vacche; seminare, raccogliere e vendere il grano. Le difficoltà dell'economia non si risolvono con ingegnerie finanziarie, ma ponendo ascolto ai nostri umori, indagando la trama della nostra vita comunitaria, vedere dov'è il tubo rotto, la perdita che ci lascia a secco. Forse questa perdita è propria una certa visione mitica della vita. La modernità si era giustamente organizzata per diminuire le tenebre, ma a un certo punto la tecnologia è divenuta essa stessa un mito, un mito da indagare, un mito che mette in crisi, che finisce per congedare la modernità da cui è nata. Sto parlando di Internet, sto parlando della rete. Mi pare che il nostro ospite l'abbia messa al centro di tutti i suoi ragionamenti in una bella giornata meridionale con tante persone, buon cibo, aria buona e una grande voglia di capire a che punto siamo.
Farinelli è il più noto geografo italiano, anche se è portatore di un pensiero anomalo, in cui la geografia si presenta come prima forma di indagine del mondo e come forma sempre più adatta a indagare il tempo presente. A Bisaccia ci ha parlato per un giorno intero. C'è bisogno di ridare valore al lavoro culturale e perché questo accada bisogna dare tempo alle persone di raccontare la loro ricerca. Nel caso di Farinelli il punto di partenza del suo discorso è che la modernità è finita, perché la rete in un certo senso ha sancito la fine di spazio e tempo, i pilastri su cui la modernità ha eretto i suoi edifici materiali e immateriali. Dire che è finita la modernità vuol dire che è finito il capitalismo e qualcuno dovrebbe spiegarlo ai teologi di una religione che ormai vive solo nel terrore di tenere in vita il suo unico idolo: il mercato.
A parlare della fine della modernità sono in tanti, ma le cose vivono a lungo anche dopo che sono finite, perché devono finire prima di tutto nella nostra testa. Il modello della crescita tanto osteggiato da intellettuali come Latouche viene da molto lontano e non può essere ribaltato da un altro modello economico ma da un altro modello del sacro. Si potrebbe dire che la crescita come noi la concepiamo ha molto più a che fare con Cristo che con la borsa. Gli alberi in questi giorni fioriscono grazie alla loro generosa intelligenza e non perché si pongono il problema della crescita o della salvezza. Fino a quando non usciremo da questa ossessione di stare dentro un tempo lineare che ci deve portare a una qualche forma di salvezza, saremo sempre istigati a usare il mondo come una cava da cui estrarre merci e concetti per distrarci dalla morte.
La modernità è stata un lungo equivoco che ha migliorato le condizioni di vita materiale, ma ci ha isolato dai nostri simili e dalle altre creature del pianeta. L'io cartesiano è un sarto che ha preso le misure al mondo e gli ha fatto un vestito che è una camicia di forza. Ci siamo staccati da quello che una volta si chiamava il creato, considerandoci le uniche creature intelligenti del pianeta e invece siamo solo la specie più anomala e presuntuosa.
Da una masseria di Bisaccia, dall'incrocio di geografia e paesologia viene fuori l'idea avventurosa che il problema è teologico prima che politico e economico. Abbiamo bisogno di capire che la rete ha abolito lo spazio, abbiamo bisogno di capire che esistono i luoghi e che ogni luogo è diverso. Il sud, per esempio, è gremito di tanti sud, come si dice da un po' di tempo. Solo che poi nessuno li va a vedere questi sud, come se affermare la varietà fosse di per sé un criterio di conoscenza. Abbiamo tanti sfregi, però abbiamo ancora luoghi dove un po' di persone si raccolgono in maniera poetica, nel senso di tenere insieme il sogno e la ragione: prima di iniziare i nostri parlamenti abbiamo bevuto il latte appena munto, tra un discorso e l'altro abbiamo mangiato le mozzarelle fatte nel caseificio, abbiamo tenuto nel fondo dell'anima l'amarezza e il disagio che sempre più spesso aleggiano sulle nostre facce.
I luoghi non sono uno sfondo dove sfiliamo con le nostre ombre. Sono terra e carne, vento, respiro, luce, storia che non si è mai fermata e mai si fermerà. Non c'è un dio e non ci sono potenti a governare questo nuovo mondo che sta nascendo dalle rovine della modernità. Nella masseria di Bisaccia nessun arcaismo, nessun rito new age, ma una sagra del futuro.
So bene che simili affermazioni possono suonare velleitarie, ma è un rischio che bisogna correre per sbaragliare il nichilismo dei chierichetti del mercato. Bisogna ripensare a tante cose, partendo dall'idea che i luoghi considerati arretrati non sono più tali. L'arretratezza si trova ovunque, in paese, in città e in campagna. La piccola borghesia sta a nord e a sud e così la corruzione.
È chiaro che in un momento di crisi, in un momento in cui le persone hanno difficoltà ad andare avanti, non si può pensare che la soluzione è considerare l'intelligenza di un sasso o di un ramo. D'altra parte l'urgenza delle risposte non deve mai farci perdere di vista che siamo al mondo senza alcun mandato, sia come specie che come individui e chi pretende di assegnarcelo ci sta imbrogliando. E ci imbroglia anche chi pensa di poterci dire dove stiamo andando. Quando diciamo che è finita la modernità non diciamo che bisogna tornare a quel che c'era prima. Piuttosto bisogna andare con più decisione verso il futuro, consumare fino in fondo il delirio sviluppista e arrivare in luoghi che adesso neppure riusciamo a immaginare. L'esito è sempre incerto, la malattia può guarire o aggravarsi. Possiamo arrivare alla dittatura dell'autismo corale (di cui si intravedono molti segni) oppure trovare nuove forme comunitarie e dunque nuove forme della politica. Noi non abbiamo solo il problema di uscire dalla crisi, abbiamo il problema di uscire da una visione economicista dell'umano. E allora se la sfida è posta all'altezza che merita siamo chiamati tutti a combatterla, cominciando dal primato dei luoghi e dell'esperienza invece che dell'astrazione e del globalismo.
Nella masseria di Bisaccia abbiamo vissuto una bellissima giornata non solo perché abbiamo ascoltato un grande intellettuale. La bellezza veniva anche dal fatto che ad ascoltarlo c'erano persone di diversi luoghi e di diverse attese. Non è stata una lezione, è stata una giornata in cui i nostri pensieri si volevano bene, si cercavano, s'intrecciavano. Nell'aria c'era più contentezza di quella che si respira nelle sagre o nelle feste patronali. La conferma che si può produrre lietezza anche con il lavoro culturale (e poco importa che la lietezza non sia misurata dal Pil). Sappiamo che tutto questo è provvisorio, ma è un qualcosa che c'è, è già qui tra noi, è la gloria di saper stare da qualche parte.
L'Italia e il sud dell'Italia in particolare hanno una grande capacita di manipolazione simbolica, come ripete spesso Farinelli. Siamo capaci di astrazione molto più degli americani. L'impronta della Magna Grecia non è stata cancellata. E il mondo che sta per venire ha bisogno non tanto di tecnocrati, di ragionieri, di economisti, ma di filosofi, di poeti, di geografi.
In questa nuova cornice la progettazione dello sviluppo locale assume senso, perché nasce da un contagio fatto di incontri veri tra persone vere. Lo sviluppo oggi deve significare creare un'alternativa al consumo e alle merci. Un'alternativa che non può essere creata tornando indietro, perché era per quello che c'era dietro che siamo arrivati a quello che c'è adesso. L'alternativa è davanti, troppo davanti forse, al punto che nessuno riesce neppure a intravederla. Su questo Farinelli è stato molto onesto e non ha disegnato miraggi. Forse c'è solo da continuare a lavorare, a incoraggiarsi dando fiducia alla terra in cui si vive.

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