venerdì 17 aprile 2015

ECONOMIA DELOCALIZZATA DEI RIFIUTI DELL' IPER - CONSUMO OCCIDENTALE. ATTANASIO, GIORGIO, Agbogbloshie, come si vive nella più grande discarica di rifiuti elettronici d'Africa, L'ESPRESSO, 13 aprile 2015

Il ragazzo col berretto si asciuga con una una mano il sudore che gli riga il volto. Con l’altra impugna una barra di metallo e rimuove una sfera infuocata, spargendo un denso fumo nero. È un fumo spesso, che brucia la gola e urtica la pelle, e proviene dal groviglio di cavi infuocati che sta attizzando.



Attraverso la parete di fumo si distinguono i contorni di cinque, dieci ragazzi, camuffati dalla cappa di fuliggine. Alcuni cercano di dare fuoco ai resti di quello che probabilmente è stato un computer; altri rimuovono le braci dove si fondono cavi, schermi, monitor; il resto guarda affascinato le lingue di fuoco che si innalzano verso il cielo plumbeo.

“Mi dedico a bruciare i cavi per ottenerne del rame” dice con un filo di voce il ragazzo col berretto, mentre si ripassa la mano sulle fronte madida. E' Abdurahim, uno dei centinaia di giovani che ogni giorno bruciano fili elettrici, computer, televisori e ogni sorta di apparato nella discarica di Agbogbloshie, il quartiere di Accra – la capitale del Ghana - che nell’ultima decade si è convertito nella discarica di e-waste più grande dell’Africa. In ogni angolo di questo cimitero elettronico, che copre un’area pari a quella di 11 campi di calcio, si innalzano pile di monitor, computer, tastiere, tubi catodici, videoregistratori e di ogni sorta di aggeggio ormai irriconoscibile.


Rottami provenienti in gran parte da Europa e Stati Uniti, ammassati ovunque in attesa di essere classificati e poi smembrati per estrarne rame, alluminio, ferro e oro. “Il nostro lavoro consiste nel comprare rifiuti per smantellarli e ricavarne pezzi di valore”, afferma Yussif Mahama, il vicepresidente dell’Associazione dei Distributori di Ferraglia dell’area metropolitana di Accra. Per capire il volume d’affari che si cela dietro questo business, basti pensare che il 10% dell’oro di tutto il mondo si impiega nella fabbricazione di apparati elettronici e che 50 mila cellulari contengono 1 kg d’oro e 10 d’argento.

UN PROBLEMA GLOBALE
Nel 2013 sono stati venduti in tutto il mondo quasi 50 milioni di televisori a schermo piatto, 300 milioni di computer e circa 2 miliardi di cellulari (smartphone e di vecchia generazione). Una delle conseguenze dell’aumento del consumo tecnologico è l’aumento esponenziale dei rifiuti che genera. Secondo stime dell’ONU, ogni anno si producono tra i 20 e i 50 milioni di tonnellate di e-waste e i numeri sono destinati a crescere.

Ogni dispositivo tecnologico venduto nella UE include nel prezzo una “tassa di riciclaggio”, da impiegare per il regolare smaltimento del dispositivo, una volta finalizzata la sua vita utile. Tuttavia, nonostante con questa imposta si raccolgano annualmente 4 miliardi di euro, si calcola che almeno 2/3 dei rifiuti tecnologici non raggiunga mai un impianto di smaltimento omologato, perché è molto più conveniente mandarlo in Africa. Per riciclare un computer in Germania, infatti, ci vogliono 3,5 euro, mentre smaltire un monitor in Francia ce ne vogliono 5. Inviare un qualsiasi apparato in un container in Ghana non costa più di 1,5 euro.

In questo video (e nel reportage firmato da Angelo Attanasio e Jerónimo Giorgi) il racconto delle condizioni di vita e di lavoro nella gigantesca discarica in cui, alla periferia della capitale del Ghana, vengono smantellati computer, televisioni ed elettrodomestici usati provenienti da Europa e Stati Uniti. Ecco cosa racconta chi vive e lavora a Agbogbloshiedi Angelo Attanasio

Con l’obiettivo di proteggere i paesi in via di sviluppo da questo tipo di commercio, nel 1989 è stata firmata la Convenzione di Basilea, che proibisce il traffico internazionale di rifiuti tossici. Tutti i membri della UE e altri 182 stati hanno firmato l’accordo. Gli Stati Uniti – che da soli producono 9,5 milioni di tonnellate all’anno di e-waste – e Haiti, invece, non l’hanno ratificato. Nonostante la proibizione, però, i paesi occidentali ricorrono sempre più spesso alle donazioni e all’alibi della riduzione del digital divide nei paesi in via di sviluppo per disfarsi dei propri vecchi PC.

Ogni mese 600 container provenienti soprattutto da Stati Uniti, Gran Bretagna, Belgio, Olanda, Spagna e Danimarca, riempiono le banchine del porto di Tema, il più grande del Ghana. All’interno ci sono centinaia di tonnellate di prodotti tecnologici usati – a volte provenienti anche da istituzioni pubbliche – che vengono importati da negozi locali di elettronica e da intermediari come l’Associazione dei Distributori di Ferraglia dell’area metropolitana di Accra. Tuttavia, secondo alcune stime, tra il 25% e il 75% dei prodotti di seconda mano esportati in Africa non sono riutilizzabili, come quelli ammassati nei terreni di Agbogbloshie.

UNA METAFORA DELLA SOCIETÀ
“Ai paesi europei, agli Stati Uniti o al Giappone non importa mandare i propri rifiuti all’estero, purché stiano ben lontani da casa”, denuncia Cosima Dannoritzer, una documenterista tedesca che ha indagato gli effetti dell’obsolescenza programmata e le conseguenze de traffico di e-waste. “È come spazzare la polvere sotto il tappeto. Con la differenza che quel tappeto sta in casa nostra: è il nostro pianeta”.

Nel suo ultimo documentario, prodotto da vari canali europei e di prossima distribuzione anche in Italia, Dannoritzer è riuscita a ricostruire il traffico illegale di rifiuti tecnologici tra l’Occidente e le discariche della Cina e del Ghana seguendo le tracce di uno dei tanti monitor incontrati ad Agbogbloshie. Secondo le ricerche di Dannoritzer, la quantità di residui che giungono in Africa si è duplicata negli ultimi anni e il traffico illegale di rifiuti tossici ha già superato, per volume d’affari, quello degli stupefacenti. Secondo la regista, la spazzatura si è ormai convertita in una allegoria dell’umanità. “Siamo quello che buttiamo. La spazzatura è il ritratto più fedele della nostra società. Tra un secolo, quando gli archeologi scaveranno per trovare reperti che spieghino la nostra civiltà, incocceranno con montagne di spazzatura, e molta sarà elettronica”.

Tuttavia, per spiegare come l’affare della spazzatura tecnologica sia diventato così lucrativo, bisogna aggiungere un’altra variabile: la mano d’opera a basso costo disponibile in grande quantità nei paesi in via di sviluppo. Secondo l’Organizzazione internazionale del Lavoro (ILO), più della metà della forza lavoro urbana dell’Africa subsahariana si dedica ad attività informali.

In un dossier pubblicato da Martin Oteen-Ababio per l’African Studies Quarterly, in Ghana le successive privatizzazioni inizite negli anni ’80, la liberalizzazione del commercio e l’eliminizazione dei sussidi ha portato una buona parte della società a dipendere dall’“industria della sopravvivenza”. E in questo particolare ramo economico, la discarica di Agbogbloshie risulta particolarmente vantaggiosa, dal momento che le almeno 5 mila persone che lavorano nella discarica guadagnano una media di 3,5 dollari al giorno, quasi il doppio di quello che riesce a mettere insieme un lavoratore informale medio.

Sebbene le statistiche siano piuttosto approssimative, è possibile affermare che la stragrande maggioranza delle persone occupate ad Agbogbloshie arrivi ad Accra – città a maggioranza cristiana – dal nord musulmano del paese, la parte più povera del Ghana e quella maggiormente colpita dalle violenze interetniche. Dal 2000, quando la discarica ha iniziato a funzionare, ad oggi, Agbogbloshie si è convertita per molti di loro in un rifugio e insieme nel luogo in cui trovare i mezzi per il sostentamento quotidiano. È il caso di Sam Sandow, un corpulento uomo di 32 anni che trascorre la giornata nella sua bottega di lamiera riducendo in pezzi ogni tipo di elettrodomestici. Seduto a cavalcioni sulla carcassa di un monitor, Sam ripete lo stesso movimento per otto o dieci ore al giorno. Sceglie un oggetto tra la montagna di ferraglia, lo fissa al suolo con le gambe ed inizia a colpirlo con un martello, fino a ridurlo in pezzi. “Mi dedico soprattutto ad estrarre schedemadri, alluminio e rame. Poi rivendo tutto ai commercianti di metalli”, spiega Sam, che si lamenta della salubrità del posto: “Qui è tutto sporco, c’è spazzatura dappertutto e i rifiuti hanno ormai bloccato anche le correnti d’acqua della laguna”. Tuttavia, afferma, il vero inferno è più in là, oltre le officine di lamiera, dove i ragazzi bruciano a cielo aperto qualsiasi cosa che possa servire.

UN DISASTRO AMBIENTALE
In alcune aree di Agbogbloshie la concentrazione di piombo nel suolo supera del 1000% quella tollerata dagli standard internazionali, mentre l’inquinamento delle falde acquifere del fiume Odaw che ha comportato la drastica riduzione della biodiversità della laguna Korle Bu, sulle cui rive sorge la discarica. Inoltre, i lavoratori sono esposti continuamente a sostanze tossiche come il mercurio, i ritardanti di fiamma bromurati o il cadmio. L’accumulo di queste sostanze nel corpo produce a medio e lungo termine malattie invalidanti irreversibili: cefalee, tosse, eruzioni cutanee, aborti involontari, problemi all’apparato riproduttivo e vari tipi di tumore.

Con l’obiettivo di migliorare le condizioni ambientali e di lavoro di Agbogbloshie, un gruppo di giovani ha creato all’interno della discarica il progetto QAMP (Agbogbloshie Makerspace Platform). “Cerchiamo di trasformare il sito in una comunità di giovani imprenditori”, assicura DK Osseo-Asare, uno dei fondatori dell’organizzazione. Per conseguirlo, QAMP organizza dei laboratori in cui i ragazzi che lavorano ad Agbogbloshie raccontano le proprie aspirazioni e cercano di disegnare delle strategie per realizzarle. Inoltra la Ong fornisce consigli e know-how per permettere ai lavoratori di uscire dall’informalità.

“La realtà è che qui c’è un enorme problema di inquinamento e molti giovani stanno soffrendo gravi problemi di salute”, denuncia Osseo-Asare “Però è pur vero che questi ragazzi stanno mantenendo le proprie famiglie con le rimesse. Pertanto, il problema ha una doppia lettura e noi cerchiamo di mettere in risalto quella positiva”. L’industria della spazzatura tecnologica gioca in Ghana un ruolo fondamentale. Tra impiego diretto e indiretto, almeno 30 mila persone vivono di questo business, che apporta all’economia del paese circa 200 milioni di dollari.

UN PROBLEMA DESTINATO A RIMANERE
Nonostante l’impatto economico della spazzatura tecnologica, il parlamento ghanese non ha mai legiferato per regolarne l’importazione. Per Atiemo Sampson Manukure, ricercatore del Centro di Ricerca di Chimica Nucleare dell’università di Accra, non si tratta di un problema solo ghanese. “Se la UE applicasse i propri protocolli, il problema probabilmente non esisterebbe. Ma i paesi ricchi non hanno alcun interesse a risolverlo, per gli alti costi che comporterebbe. Quindi il Ghana da solo non potrà fare molto”.
Intanto il suolo di Agbogbloshie, ricoperto di plastica e detriti metallici, è sempre più nero, più inquinato, più inerte. Solo qualche vacca solitaria si azzarda a pascolare lì dove si alzano le colonne di fumo. Le vacche e i ragazzi che portano in spalle alcune casse pieni di cavi elettrici pronti per essere arsi nei falò improvvisati.
Le fiamme che Abdurahim domava fino ad un momento prima si sono estinte e la violenta nube nera si è trasformata in una nebbiolina azzurrognola. Il rivestimento di plastica dei fili si è consumato è sotto la cappa di fuliggine si intravede il rosso metalicco del rame. “Ogni mattina, quando mi sveglio, mi fa male il petto”, mormora mentre si aggiusta il berretto scolorito. E dopo aver pesato il raccolto della giornata, aggiunge: “È pericoloso vivere qui. Mi piacerebbe cambiar lavoro, un giorno”. Quindi raccoglie il groviglio di fili di rame, lo sistema nel suo zaino e si perde nella nebbia. 

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