lunedì 8 settembre 2014

IDEE E TEORIE ECONOMICHE. L. PELLICANI, Così è fallito il modello neoliberista Un saggio di Pellicani, RESET, 25 marzo 2013

Il crollo del Muro di Berlino è stato salutato non solo come la fine del comunismo, ma anche come la fine del compromesso socialdemocratico fra Stato e mercato. Quelli che George Soros ha chiamato i “fondamentalisti del mercato” hanno sentenziato che il welfare era un lusso che i Paesi dell’Europa occidentale non potevano permettersi. E hanno altresì sentenziato che non c’era più spazio per l’azione riformatrice dei partiti dell’Internazionale socialista, tesa a massimizzare la libertà-eguale. Sicché non c’era che una via davanti ai popoli d’Occidente : quella del mercato autoregolato.


Ebbene: la Grande recessione ha confutato clamorosamente le tesi dei “fondamentalisti del mercato ”. La tanto decantata new economy— con le sue strabilianti innovazioni, comprese la deregulation e l’ingegneria finanziaria — avrebbe dovuto garantire stabilità e crescente benessere; per contro, a partire dal 2008, milioni di cittadini americani hanno perso la casa e il lavoro.
Evidentemente, qualcosa di profondamente sbagliato c’era nell’idea che lo Stato doveva limitarsi a garantire il corretto funzionamento del libero mercato. Lo ha pubblicamente riconosciuto Alan Greenspan, governatore della Federal Reserve e sommo sacerdote dellanew economy. “Ho trovato una pecca – così si è espresso quando è stato chiamato dal Congresso degli Stati Uniti a deporre sulla crisi finanziaria – nel modello che consideravo la struttura di funzionamento cruciale che definiva come va il mondo… Proprio per questo sono rimasto sconvolto, poiché per oltre 40 anni ho creduto che vi fossero prove inconfutabili che il modello funzionasse eccezionalmente bene”.
In realtà, non pochi studiosi – Stiglitz, Krugman, Soros, Wolman, Colamosca, Luttwak, Albert, Rifkin, Thurow – avevano previsto l’inevitabile bancarotta della del modello neoliberista. “L’unica sorpresa della crisi economica del 2008 – ha osservato con amara ironia Stiglitz – è che abbia colto di sorpresa così tante persone. Secondo alcuni osservatori si è trattato di un caso da manuale, che non solo era prevedibile, ma che era stato previsto. Un mercato deregolamentato inondato di liquidità e con tassi di interesse bassi, una bolla immobiliare globale e l’aumento sconsiderato della concessione dei mutui subprime costituivano una combinazione tossica. Se aggiungiamo il disavanzo fiscale e commerciale degli Stati Uniti e il corrispondente accumulo di ingenti riserve di dollari da parte della Cina — insomma una economia globale in pieno squilibrio – era chiaro che le cose stavano andando malissimo” [1]. E ha precisato : “ Ciò che differenzia questa crisi dalle molte che l’hanno precedute nell’ultimo quarto di secolo, è che reca il marchio made in Usa “ [2].
In effetti, la Grande recessione è iniziata negli Stati Uniti e di là, come un contagio, si è diffusa trascinando “ con sé gran parte dell’economia mondiale” [3]. Essa ha dimostrato l’assurdità tecnica – oltre che morale – del paradigma neoliberista, centrato sul mercato autoregolato. Un’assurdità che lo stesso Stiglitz è stato fra i primi a denunciare, ricordando che i mercati – pur essendo “il cuore pulsante di qualsiasi economia efficiente” — “da soli non possono funzionare” [4]. Non lo possono per le ragioni che furono illustrate ben 90 anni or sono da Keynes, al cui magistero Stiglitz si richiama esplicitamente.
Stiglitz non si è limitato a criticare l’ideologia dei “fondamentalisti del mercato”. Ha indicato, per la società americana, anche una realistica alternativa al paradigma neoliberista. La quale, in buona sostanza, altro non è che il paradigma socialdemocratico, la cui realizzazione più riuscita è quella svedese. E, infatti, sul modello svedese Stiglitz si è soffermato per mettere in evidenza che non è affatto vero che l’efficienza economica e welfare sono incompatibili, come amano ripetere i neoliberisti. Lo sono. Ed è precisamente il sistema svedese che lo dimostra in maniera esemplare. La Svezia registra uno dei redditi pro capite più elevati nel mondo e, contemporaneamente, negli indici di benessere e di tutela sociale supera di gran lunga gli Stati Uniti. E questo accade perché il settore pubblico svedese è riuscito a utilizzare le proprie risorse assai bene, mentre il settore privato degli Stati Uniti ha fatto un pessimo lavoro. In somma, la Svezia, con le sue concrete realizzazioni, dimostra che uno Stato sociale bene organizzato è “in grado di fare da supporto a una società innovativa “ [5].
E il caso svedese non è punto un’eccezione. Assieme alla Svezia, vanno ricordate la Germania, l’Olanda, l’Austria, la Svizzera, la Danimarca, la Norvegia e la Finlandia : tutti Paesi che hanno saputo coniugare una elevata efficienza economica con politiche volte a massimizzare la libertà-eguale [6]. Certo, ben diversamente le cose si sono svolte in Grecia, Spagna, Francia e Italia. In questi Paesi è stato adottato per almeno due decenni quello che Tomas Sedlacek ha chiamato “keynesismo bastardo” : i rispettivi governi ( di sinistra come di destra) hanno accolto solo una parte della dottrina ( il ricorso al debito pubblico ), ma ne hanno dimenticata l’altra ( accumulare surplus). Lo stesso Sedlacek ha suggerito un dispositivo fiscale battezzato “regola di Giuseppe” e così formulato : “la crescita del Pil, più i deficit del bilancio complessivo, non devono superare il 3 per cento del Pil stesso” [7]. In altre parole, se l’economia cresce del 6 per cento, è imperativo avere un surplus pari almeno al 3 per cento; e se l’economia registra una flessione del 3 per cento, è consentito avere un debito massimo pari al 6 per cento del Pil. I debiti, insomma, andrebbero ammessi durante gli anni delle “vacche magre” a patto che vengano regolarmente compensati durante gli anni delle “vacche grasse “.
Da tutto ciò emerge una cosa ben precisa: l’Occidente non è dominato né dal “pensiero unico”, né, tanto meno, dal “modello unico”. Sulla scena, da decenni, si confrontano due modelli di società : quello neoliberista e quello liberal-socialista.
Il modello neoliberista ha preso forma a partire da quella che è stata chiamata “la rivoluzione dello Stato minimo” [8] — i cui più influenti teorici sono stati Mises, Hayek, Nozick e Friedman — attuata a partire dall’insediamento di Ronald Reagan nella Casa Bianca, Due sono le idee fondamentali che lo hanno animato. La prima, di carattere negativo : l’affermazione, perentoria quanto arbitraria, che “lo Stato sociale che si fa carico degli individui dalla culla alla bara non si discosta molto dal Grande Fratello di Orwell “ [9]. La seconda di carattere positivo: se gli imprenditori pagheranno meno imposte, la crescita sarà assai più vigorosa e la ricchezza, come una goccia, scenderà dal vertice della gerarchia economico-sociale fino agli strati più bassi della popolazione. Stato minimo, quindi, per i teorici neoliberisti, significa rifiuto delle politiche welfare tese a massimizzare il valore-eguaglianza, e drastica riduzione della pressione fiscale onde garantire la più alta efficienza. E, in effetti, mentre nel 1981 il Governo federale prelevava sino al 75 per cento dei redditi più elevati, a partire dal 1989 l’aliquota massima è passata al 33 per cento. Con il risultato che nel 2004 l’1 per cento più ricco degli Stati Uniti percepiva il 16 per cento del reddito totale nazionale, cioè il doppio di quello che percepiva 1980 [10].
Le conseguenze sociali dell’offensiva neoliberista sono state tali da confermare ciò che, quasi un secolo fa, aveva sottolineato Max Weber : “Quando il mercato è abbandonato alla sua auto-normatività, esso conosce soltanto la dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità personali siano potatrici. Queste costituiscono altrettanti ostacoli al libero sviluppo ella nuda comunità di mercato; e gli specifici interessi di questa, a loro volta, costituiscono lo specifico banco di prova di tutte queste relazioni” [11].
E, infatti, l’ideologia neoliberista – tutta centrata sulla triade deregulation, liberalizzazioni e privatizzazioni – ha legittimato, col prestigio della scienza, la tendenza dei dirigenti d’azienda a “trattare la forza-lavoro alla stregua di una merce usa e getta” [12]. Inoltre, come era logico che accadesse, quello che Luttwak ha chiamato il “turbo capitalismo ” ha generato una spettacolare ridistribuzione della ricchezza che ha portato l’ineguaglianza a livelli di gran lunga più elevati rispetto a qualsiasi altra nazione del mondo progredito [13]. E ha altresì generato una nuova classe sociale: i working poors, i quali, con la loro diffusa presenza, hanno smentito il teorema fondamentale del neoliberismo, secondo il quale “ la migliore garanzia contro tutti gli sfruttamenti è il mercato “ [14]; e hanno altresì completamente screditato la comoda teoria della goccia.
L’istituzionalizzazione del paradigma neoliberista ha fatto crescere “una massa di sottoproletariato di cui il sistema produttivo non ha alcun bisogno “ [15], caratterizzato da “criminalità violenta, uso di droga, disoccupazione, analfabetismo e disgregazione familiare” [16]. Con il risultato che, fra 1980 e il 2005, il numero dei detenuti nelle prigioni americane è passato da 500 mila a due milioni ! Una cifra mostruosa, la quale, da sola, è sufficiente a dimostrare non solo l’iniquità del paradigma neoliberista, ma anche la sua intrinseca irrazionalità. Infatti, le risorse che lo Stato avrebbe potuto impiegare per ridurre l’area del degrado sociale sono state destinare alla gestione di un universo carcerario di proporzioni abnormi.
Né è tutto. Nel suo libro La disuguaglianza, Amartya Sen ha attirato l’attenzione sulla diffusa sorpresa “ di fronte alla circostanza che vi sia fame in un Paese così ricco come gli Stati Uniti, dove anche i gruppi più poveri tendono ad avere redditi assai maggiori di quelli delle classi medie in Paesi più poveri, le quali possono non essere particolarmente afflitte dalla fame “ [17]. In realtà, non c’è nulla di sorprendente nel fatto che, in un sistema di mercato autoregolato, gruppi sociali più o meno ampi si trovino a soffrire la privazione alimentare. Lo sviluppo tecnologico, altamente positivo nel lungo periodo, comporta, nel breve periodo, costi umani non indifferenti, che si scaricano su coloro che vengono espulsi dal processo produttivo. Il periodico sconvolgimento della struttura della popolazione attiva è accompagnato, inevitabilmente, da licenziamenti, declassamento, sradicamento : tutti fenomeni che non possono non generare “ingiustizie intollerabili “ [18]. Certo, la crescita della ricchezza, alimentata dalla crescita della produttività del lavoro, fa nascere nuove domande e quindi nuovi posti di lavoro [19]. Ma ciò richiede tempo. Nel frattempo, le vittime del progresso — cioè tutti coloro che le nuove tecnologie rendono “superflui” — sono abbandonati al loro destino. E questo nel bel mezzo della più grande opulenza mai registrata nella storia dell’umanità !
Ma la cosa più irrazionale ed iniqua della società americana — regolata dal principio secondo il quale “i tentativi dei governi di interferire con le operazioni dei mercati riducono la qualità della vita e della libertà “ [20] – è senz’altro il sistema sanitario, basato sul rifiuto ostinato del welfare state socialdemocratico. La sua iniquità è di evidenza solare : ben 45 milioni di cittadini privi di assistenza sanitaria, non avendo il denaro per stipulare una polizza di assicurazione. Parimenti di evidenza solare è la sua irrazionalità. Tale irrazionalità è stata documentata da uno studio comparato del sistema sanitario americano con quello canadese, dal quale risulta che “ negli Stati Uniti i costi amministrativi complessivi – includendo, cioè, sia i costi amministrativi delle compagnie assicurative sia i costi amministrativi dei fornitori di servizi sanitari – rappresentano il 31 per cento della spesa sanitaria, contro una percentuale del 17 per cento in Canada. In termini monetari, questa differenza corrisponde a 300 miliardi di dollari in più, vale a dire a un terzo della differenza nella spesa sanitaria fra Stati Uniti e Canada” [21].
Ciò costringe a giungere alla conclusione che la realtà smentisce clamorosamente l’idea cardinale dell’ideologia neoliberista, e cioè che il mercato autoregolato garantisce l’uso razionale delle risorse scarse. Smentisce altresì l’idea secondo la quale il mercato autoregolato garantisce anche “l’armonia degli interessi rettamente intesi di tutti i gruppi e gli individui della società” [22].
Non meno gravi sono le conseguenze morali della rivoluzione dello Stato minimo, puntualmente sottolineate da Soros. Il valore predominante, nella società americana quale è emersa da dalla pluridecennale egemonia del paradigma neoliberista, è “la caccia al denaro” [23]. Conseguentemente, “la ricerca dell’interesse egoistico è stata eretta principio universale che permea di sé tutti gli aspetti dell’esistenza : non solo la scelta individuale espressa sul mercato, ma anche la scelta sociale espressa in politica” [24]. Un corollario logico del fatto che l’ideologia del laissez faire ha accettato come unico principio guida l’interesse personale, dimenticando, così, che l’interesse comune non trova espressione nel comportamento del mercato .
Di fronte a tutto ciò, non sorprende che Wolmann e Colamosca siano giunti alla conclusione che “il capitalismo è miope, e non è capace di effettuare quegli investimenti sociali di lungo periodo nell‘istruzione, nelle infrastrutture, nella ricerca e nello sviluppo di cui avrebbe bisogno per la sua stessa sopravvivenza. Per fare questi investimenti ha bisogno dell’aiuto del Governo, ma la sua ideologia gli impedisce sia di riconoscerne la necessità, sia di chiedere questo aiuto” [25]. E parimenti non sorprende che Rifkin abbia criticato duramente il “sogno americano” a motivo del fatto che è “ troppo centrato sul progresso materiale personale e tropo poco preoccupato del benessere generale dell’umanità per continuare ad avere fascino e importanza per un modo caratterizzato dal rischio, dalla diversità e dalla interdipendenza; è diventato un sogno vecchio, intriso di una mentalità legata a una frontiera che è stata chiusa tanto tempo fa” [26]. Contemporaneamente, Rifkin ha elogiato la socialdemocrazia per il fatto che essa, con la sua azione riformatrice, è riuscita “ a creare la più umana forma di capitalismo finora conosciuta” [27]. C’è riuscita in quanto non ha dimenticato l’dea che la società non è solo il luogo in cui si svolge il gioco degli scambi ; è anche – anzi, soprattutto – una “comunità morale” nella quale – come ha sottolineato con particolare vigore John Rawls — i suoi membri “ hanno in comune un senso di giustizia, e sono legati dalla fratellanza civica” [28] e dalla condivisione di “uno scopo finale ” [29].
Tutto ciò può essere sintetizzato con l’efficace formula coniata da Giorgio Ruffolo: “I socialisti dicono sì all’economia di mercato; no alla società di mercato ” [30]. Rifiutano l’idea che il mercato debba essere il solo ed esclusivo regolatore delle relazioni fra i cittadini e sottolineano il principio di solidarietà. Un principio così estraneo alla cultura neoliberista che Hayek non ha avuto esitazione alcuna a sentenziare che la giustizia sociale è “un fuoco fatuo che porta gli uomini ad abbandonare i valori che in passato hanno permesso lo sviluppo della civiltà” [31] e che “il Governo assistenziale che mira alla giustizia sociale …riconduce di necessità al socialismo e ai suoi metodi coercitivi ed essenzialmente arbitrari ” [32].
In conclusione, le differenze strutturali fra capitalismo europeo e capitalismo americano sono in gran parte riconducibili al fatto che, mentre il primo è stato, sia pure entro precisi limiti, democratizzato attraverso le politiche welfare adottate ai partiti dell’Internazionale socialista, il secondo si è sviluppato entro il quadro istituzionale teorizzato dai “fondamentalisti del mercato”. Il che, poi, significa che se si prendono sul serio i principi solennemente proclamati dalla Rivoluzione francese – la libertà, l’eguaglianza e la solidarietà –, allora non si può non convenire che il futuro della civiltà in cui e di cui viviamo è strettamente legato alla cultura liberal-socialista, il cui scopo finale è l’universalizzazione della libertà-eguale [33].

Note
[1] J. E. Stiglitz, Bancarotta, Einaudi, Torino 2010, p. 3.
[2] Ibidem, p. 3.
[3] Ibidem, p. 43.
[4] Ibidem, p. X.
[5] Ibidem, p. 285.
[6] Cfr. F. Rampini, “Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale”. Falso!, Laterza, Bari 2012.
[7] T. Sedlacek, L’economia del bene e del male, Garzanti, Milano 2012, p. 327.
[8] M. Albert, Capitalismo contro capitalismo, Il Mulino, Bologna 1993, p. 7.
[9] J. J. Rosa, Il secondo XX secolo, Dedalo, Bari 2002, p. 6.
[10] E’ quanto è stato documentato da uno studio condotto da economisti dell’Università di Berkeley e dell’Ecole Normale Superièure di Parigi ( Cit. da A. Gianni, Goodbye liberismo, Ponte alle Grazie, Milano 2009, pp. 31-33).
[11] M. Weber, Economia e società, Comunità, Milano 1968, vol. I, p. 620.
[12] E. Luttwak, La dittatura del capitalismo, Mondadori, Milano 1999, p. 82.
[13] “Negli anni Ottanta, un direttore generale medio americano guadagnava quaranta volte più di un operaio medio. Per i direttori generali americani di alto livello, oggi, il rapporto è di 475:I, e sarebbe molto maggiore se fossero computate le proprietà e non il reddito. In Gran Bretagna il rapporto è di 23:I, in Francia 15:I e in Svezia 13:I “ ( T. Judt, L’età dell’oblio, Laterza, Bari 2009, p. 381).
[14] H. Lepage, Domani il capitalismo, L’Opinione, Roma 1978, p. 287. Ancora più radicale la tesi di Pascal Salin, il quale non ha avuto esitazione alcuna a fare questa sbalorditiva affermazione : “nell’economia di mercato non esistono asimmetrie di potere “ ( Le libéralisme, Odil Jacob, Parigi 2000, p. 140).
[15] L. Thurow, Il futuro del capitalismo, Mondadori, Milano 1997, p. 340.
[16] F. Fukuyama, La Grande Distruzione, Baldini e Castoldi, Milano 2001, p. 91.
[17] A. Sen, La disuguaglianza, Il Mulino, Bologna 1994, p. 161.
[18] G. Soros, La minaccia capitalistica, Reset, Milano 1997, p. 23.
[19] Cfr. J. Fourastié, Productivité et richesse des nations, Gallimard, Parigi 1995.
[20] I. Stelzer, Un terzo applauso per il capitalismo, in C. Demuth e W. Kristol ( a cura di ), La visione politica di Irving Kristol, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, p. 49.
[21] P. R. Krugman, La coscienza di un liberal, Laterza, Bari 2008, p. 218.
[22] L. von Mises, Politica economica, LiberiLibri, Macerata 1999, p. 27.
[23] G. Soros, La crisi del capitalismo globale, Ponte alle Grazie, Milano 1999, p. 153.
[24] G. Soros, La società aperta, Ponte alle Grazie, Milano 2001, p. 159.
[25] Cit. da W. Wolman e A. Colamosca, Il tradimento dell’economia, Ponte alle Grazie, Milano 1997, p. 273.
[26] J. Rifkin, Il sogno europeo, Mondadori, Milano 2007, p. 5
[27] Ibidem, p. 58.
[28] J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1983, p. 437.
[29] Ibidem, p. 429.
[30] Sul tormentato percorso che ha portato i partiti socialisti ad accettare l’economia di mercato cfr. G. Giugni, Socialismo : l’eredità difficile, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 15-17.
[31] F. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1986, p. 318.
[32] F. von Hayek, La società libera, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 542-543.
[33] Cfr. L. Pellicani, Anatomia dell’anticapitalismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 283 e ss.

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