martedì 22 luglio 2014

CAPITALISMO FINANZIARIO E COSTITUZIONE AMERICANA. G. GIORELLO, La finanza è tiranna, riscopriamo Jefferson, LA LETTURA

«Le banche si sono condannate a morte da sole», scriveva nel 1817 Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti (dal 1801 al 1809), a Thomas Cooper, uno dei più importanti sostenitori americani della fisiocrazia (la dottrina che vede nell’agricoltura il fondamento delle attività economiche). In quell’occasione si dichiarava convinto che l’ammanco di 300 milioni di dollari (di allora) da parte delle banche americane e il loro rifiuto di pagare i creditori potesse segnare la loro scomparsa dalla scena. Ma «grazie alla stupidità dei nostri cittadini e all’acquiescenza dei nostri legislatori», i banchieri avevano letteralmente saccheggiato la giovane nazione, spendendo i soldi del popolo in «case sontuose, eleganti carrozze e cene di lusso».


Il terzo presidente non aveva mai nascosto la sua avversione per un sistema bancario tanto svincolato da qualsiasi forma di pubblico controllo da «minacciare le stesse istituzioni repubblicane». E, già un anno prima della crisi del 1817, a un altro suo corrispondente aveva denunciato «la bolla finanziaria » (suo termine) che affliggeva come una pericolosa malattia i cittadini della nuova America, i quali, «come l’idropico chiede acqua in continuazione», invocavano «banche, banche, banche», in una sorta di «stato febbrile» non troppo diverso da quello che aveva tormentato i Paesi del Vecchio mondo. A questa patologia Jefferson si era da sempre opposto non con semplici denunce morali («come avrebbe fatto Don Chisciotte contro i mulini a vento»), ma con un articolato appello ai farmers, cioè agli agricoltori indipendenti che a suo parere costituivano il nerbo della nazione, non solo dal punto di vista economico ma anche, e soprattutto, da quello politico. La vocazione democratica e repubblicana degli Stati Uniti veniva così indissolubilmente legata all’«industriosità » di tale gruppo sociale, che si sarebbe contraddistinto per la sua capacità di intrapresa economica e di autodeterminazione politica.
Proviamo adesso a sostituire ai farmers jeffersoniani coloro che oggi producono reale ricchezza e conoscenza: imprenditori, lavoratori industriali e agricoli, operatori della cultura, ricercatori tecnico-scientifici e persino artisti capaci di indicare originali forme di espressione. E immaginiamoli alle prese con le bolle e le banche odierne: non occorre eccessivo sforzo, perché è questo lo spettacolo che si para di fronte ai nostri occhi pressoché ogni giorno.
Il mosaico di concezioni filosofiche, politiche ed economiche in cui si inquadra la battaglia di Jefferson viene puntualmente ricostruito da Manuela Albertone, una delle più prestigiose studiose dell’Università di Torino, che da molti anni si dedica a quella complessa «storia atlantica» che guarda all’intreccio del Nuovo e del Vecchio mondo, quasi una sorta di ping-pong in cui ci si scambiano merci, germi, animali, esseri umani e soprattutto idee, progetti e pratiche, talvolta anche ignobili (pensiamo, ovviamente, alla tratta dei neri e alle stesse esitazioni di Jefferson e di molti suoi sostenitori verso le proposte radicali di abolizione del sistema schiavistico, visto come incompatibile con la libera repubblica come loro stessi l’immaginavano).
Prima di raccontare National Identity and the Agrarian Republic, l’ultima fatica di Manuela Albertone, mi pare rilevante notare come questa sia stata pubblicata direttamente in inglese presso l’autorevole collana di storia economica e sociale dell’età moderna dell’editore anglo-americano Ashgate. A dimostrazione che il «commercio delle idee» (per usare il sottotitolo del volume) tra vecchia Europa e giovane America continua tutt’oggi. Tema centrale del libro, infatti, è da una parte il contributo dell’Illuminismo europeo al formarsi della coscienza peculiarmente americana nel quadro di una originale trasposizione dei temi economici cari ai fisiocratici di Francia, poi ripresi e ripensati in chiave politica dai «risoluti ribelli» guidati da Jefferson fin dai tempi della Dichiarazione di indipendenza (1776); dall’altra, il rientro di questi strumenti per pensare il nesso tra economia e politica nell’Europa rivoluzionaria degli anni Novanta del Settecento, a cominciare dai coraggiosi giacobini di Francia e persino d’Inghilterra.
Manuela Albertone si concentra sulle riflessioni intorno ai paradigmi fisiocratici nelle tredici colonie ancora sotto il dominio britannico, prima ancora della Rivoluzione: riflessioni che coinvolgevano non solo il giovane Jefferson ma personaggi del calibro dello scienziato cosmopolita Benjamin Franklin e del quacchero inglese Thomas Paine, figure che, in tempi diversi e situazioni differenti, avevano imparato dalla Francia dei Lumi e dovevano insegnare a loro volta agli europei i modi concreti dell’emancipazione. I temi della fisiocrazia, ampiamente recepiti e discussi dagli americani, in un «commercio» fecondo di libri, lettere e controversie con i loro colleghi francesi e alleati (è bene ricordarlo) nella guerra contro gli inglesi, avrebbero poi costituito una vera e propria impalcatura intellettuale e culturale per l’esperimento democratico realizzato in armi.
«Per Jefferson la pietra di paragone di una repubblica — scrive Manuela Albertone — era una democrazia decentrata, garantita dai poteri degli Stati e dalla partecipazione politica concepita come forma di educazione repubblicana, cui tutti potevano accedere per mezzo di un sistema scolastico nazionale diffuso su tutto il territorio». Per il terzo presidente tale repubblica poteva trovare stabili e solide fondamenta solo nell’autonomia economico-politica di un ceto popolare che faceva del possesso e del lavoro della terra il nucleo di un repubblicanesimo al tempo stesso democratico e individualista. Al progetto doveva dare un contributo anche il più estremista Paine, coniugando tale radice agraria con una maggiore sensibilità per le attività manifatturiere e industriali. «Il radicalismo » di questo singolare quacchero, capace di rinnegare il pacifismo religioso in nome dell’emancipazione, spiega Manuela Albertone, «combinava una forma di egualitarismo democratico, ma non livellatore, con gli sviluppi economici della società di mercato, portando a piena maturazione l’economia politica dei jeffersoniani».
Dunque, per quei pensatori che erano anche uomini d’azione (ma anche per noi, a prescindere dagli stessi esiti delle rivoluzioni americana e francese), indipendenza economica voleva dire libertà nell’accezione più completa del termine. E da qui sono comunque discesi spirito d’intrapresa (per dirla con le parole care a Luigi Einaudi), tolleranza religiosa e civile (intesa come nucleo di un progressivo abbattimento di ogni genere di discriminazione), assenza di qualsiasi potere che si presenti come incontrollabile, per usare un’espressione che Karl Popper ha coniato nella sua polemica contro la televisione, ma che noi oggi vorremmo, proprio come i jeffersoniani, applicare al potere finanziario in tutte le sue forme.

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