venerdì 24 gennaio 2014

L'ECONOMIA E TECNOLOGIA DEL FUTURO. M. GAGGI, L’economia digitale ci salverà Lentamente, però, non subito, IL CORRIERE DELLA SERA, 22 gennaio 2014

Prima o poi la tecnologia ci salverà. Non si limiterà a distruggere posti di lavoro come ha fatto fin qui. L’economia digitale creerà nuovi settori, nuovi prodotti e occasioni di lavoro. Ma, com’è avvenuto nelle rivoluzioni industriali precedenti, dal motore a vapore all’elettricità, ci vorranno decenni per entrare nella nuova era di sviluppo. Nel frattempo ci sarà da stringere i denti.


Bisognerà rivedere il contratto sociale, ripensare l’istruzione, le tutele, i rapporti tra aziende e lavoratori e i sistemi fiscali per compensare o almeno attenuare gli effetti dell’uragano tecnologico che sta ridisegnando la mappa del lavoro.
Mentre Barack Obama pone al centro del suo mandato presidenziale il rilancio del ceto medio e la lotta alle divaricazioni eccessive tra ricchi e poveri annunciando una visita in Vaticano per discutere proprio di questo con papa Francesco e mentre l’allarme per l’impatto di una scarsità di lavoro che sta diventando cronica soprattutto per i giovani rimbalza ormai dappertutto, dall’Onu a al forum del capitalismo dal volto moderno di Davos, arriva l’attesa diagnosi di Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee: i due «guru» del Mit di Boston che si sono affermati come gli studiosi più profondi dell’impatto della rivoluzione digitale sulle nostre vite. Due ottimisti il cui nuovo libro «The Second Machine Age» era molto atteso per contrastare il pessimismo tecnologico di altri autori, da Robert Gordon a Tyler Cowen a Jaron Lanier. Il libro è uscito ieri e l’ottimismo c’è, ma anche loro, benché convinti che le tecnologie digitali ci aiuteranno a uscire dalla stretta attuale se correttamente utilizzate, avvertono che il percorso non sarà né breve né facile. E dovrà essere governato con molta attenzione. Se applicate all’Italia, le loro analisi, insieme a tanti altri lavori recenti (come lo studio dell’Università di Oxford secondo il quale nelle società avanzate il 46 per cento dei posti di lavoro attuali sono automatizzabili), ci dicono che, se quella di darsi un nuovo sistema elettorale e riformare alcune istituzioni è sicuramente una necessità urgente, bisogna chiudere al più presto possibile anni di conflitti soffocanti e dedicarsi alla vera emergenza sociale che si presenta sempre più nitidamente davanti ai governi. Un problema di equità e di dignità umana che diventa sempre più anche una sfida per la tenuta dei sistemi democratici e per i quali nessuno ha fin qui trovato terapie efficaci e praticabili.
Di veramente nuovo c’è poco, si dirà: le diseguaglianze sociali, più o meno profonde, ci sono sempre state ed entro certi limiti producono stimoli sani. E dei rischi di una disoccupazione di massa provocata dalla tecnologia scriveva già nel 1930 John Maynard Keynes. Solo che la sua previsione, che sembrava infondata fino a ieri, si sta improvvisamente materializzando perché l’intelligenza artificiale di computer e robot è arrivata improvvisamente a un livello che consente alle aziende di meccanizzare non solo i lavori ripetitivi ma anche molti mestieri complessi.
Tutto bene se si fosse avverata anche l’altra previsione di Keynes e cioè che nel mondo automatizzato ognuno di noi avrebbe lavorato 15 ore alla settimana. Non è avvenuto. Fin qui i vantaggi della digitalizzazione dei processi produttivi sono andati alle imprese e, in parte, ai consumatori, mentre il mondo del lavoro soffre.
Ci eravamo illusi che l’impennata della disoccupazione degli ultimi anni fosse solo congiunturale, legata allo «tsunami» finanziario iniziato nel 2008: non è così o lo è solo in parte. Anche le spiegazioni legate alla globalizzazione che costringe i lavoratori occidentali a subire la concorrenza di quelli dei Paesi emergenti ma ha tirato fuori quasi un miliardo di persone dalla povertà cominciano ad apparire solo in parte calzanti: i nuovi dati dell’Ilo, l’osservatorio dell’Onu sul lavoro, indicano che l’anno scorso la disoccupazione planetaria è tornata a crescere e che, se si escludono alcune parti dell’America Latina, l’aumento delle diseguaglianze e dei senza lavoro è fenomeno che ormai interessa, oltre all’Occidente, anche aree come il Medio e l’Estremo Oriente, fino a ieri date in ascesa inarrestabile.
Per questo la questione del lavoro e della ripartizione dei redditi, che ancora un anno e mezzo fa in America alimentava soprattutto le manifestazioni tutt’altro che oceaniche di «Occupy Wall Street», oggi è al centro delle preoccupazioni della Casa Bianca o dei ragionamenti dei capitalisti a Davos. E alimenta conferenze internazionali come quella che si è svolta l’altra sera al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite: un’iniziativa italiana dell’ambasciatore Sebastiano Cardi e di Riccardo Viale, direttore dell’Istituto di Cultura di New York, che ha raccolto molti dei maggiori esperti internazionali capitanati dal Nobel Joe Stiglitz.
Per uscirne bisognerà rimboccarsi le m

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