martedì 27 agosto 2013

TEORIE ECONOMICHE DA SINISTRA. SERGIO NOTO, Per favore, qualcosa di sinistra. Democrazia e mercato nei programmi della politica, 26 agosto 2013

Domanda: in Italia la sinistra (o il centro-sinistra, poco cambia) ha un minimo di idee nell’economia, nella politica, nella cultura per costruire una società, che possibilmente sia diversa da quella che vorrebbe costruire la destra? Sinceramente non mi pare di vederne un granché.



La cultura italiana negli ultimi decenni è stata, diciamo così, un po’ tirchia. Più che altro ha lavorato sulle idee della destra, il mercato, la competizione, segnalandosi per Realpolitik, sicuramente non per originalità e novità. E non certo perché valga il principio che «tutte le ideologie sono morte», perché un conto sono le ideologie, un conto sono i progetti che devono continuare a esistere e a guidare le decisioni politiche. Più probabilmente perché il declino della politica in Italia, con la nostra ineffabile propensione al compromesso intellettuale (non empirico, che è ben altra cosa), ci ha portati a una prassi della politica intesa come puro conseguimento del potere, vuoto o pieno di idee conta poco (ma a quel punto, perché fare fatica, meglio vuoto!). Il Berlusconismo in vent’anni di presenza alla guida dell’Italia nella sua essenza – con il disastro che ne è conseguito per il Paese e per il patrimonio ideale fottuto a una destra che pure ne aveva – è stato assenza di idee: meglio, è stato la truffa di idee solamente enunciate e presentate in stile drive-in, prive di ogni reale applicazione pratica, se non quelle di specifico immediato interesse per il leader e i suoi amici.
Così abbiamo avuto le banche di sinistra, le aziende di sinistra, gli yachts di sinistra, i CEO di sinistra – tutti legati al carro degli affari – ma idee di sinistra poche o nessuna.
Capitalismo e democrazia: strade divergenti Al contrario – udite, udite – è possibile avere delle idee e un programma di sinistra. La lezione ci viene in questi giorni da un succoso libro di Wolfgang Streeck, un tedesco ben diverso da Angela Merkel e dagli stereotipi che spesso coltiviamo sui germanici. Egli dirige tra l’altro il Dipartimento di Studi Sociali del Max Planck Institut di Colonia. Il libro è recentissimamente apparso in italiano per l’editore Feltrinelli, con un titolo Il tempo guadagnato che si presta a facili ironie sui vantaggi che potrebbero trarre a poco prezzo eventuali capoccioni della sinistra italiana che volessero includere a piè di lista dei loro rimborsi elettorali anche il costo di questo saggio.
Il libro non è di facilissima lettura, perché, appunto, richiede quella caratteristica, sfuggita ultimamente alla politica e all’economia italiane, che è la cultura, il desiderio di conoscere e approfondire. Ma è chiaro e cristallino, sia nell’esposizione che nella struttura. Non a caso Streeck, che non fu allievo diretto di Adorno, ha scritto gran parte di questo lavoro per una serie di conferenze dedicate appunto al grande pensatore di Francoforte. Al momento Streeck, che è spesso in Italia e che ha ricevuto anche un’onorificenza dal Presidente Ciampi, è considerato uno dei maggiori pensatori tedeschi, senz’altro uno di quelli che – proprio come sarebbe nei doveri di un intellettuale che si rispetti – non ha nessun timore di affermare cose sconvenienti. Il saggio è più ampio – appunto secondo l’esempio di Adorno – nella parte analitica e critica, che non in quella propositiva.
Voglio ricordare che l’analisi della situazione presente, alla luce del processo evolutivo, non è solo, come alcuni pensano, un puro esercizio intellettuale. Deve servire a costruire la base su cui edificare il futuro. Così come senza conoscenza storica non c’è morale possibile, così non può esserci proposta politica, senza una precedente analisi. La nostra comprensione del passato guida il nostro atteggiamento futuro (ovviamente parliamo di esseri razionali, perché nel momento in cui le scelte seguono la logica esclusiva della convenienza, tutto cambia, e sopratutto viene a mancare la moralità delle decisioni). Il libro si sofferma in particolare sulle vicende divergenti del capitalismo e della democrazia, che hanno fatto sì che il capitalismo – un certo tipo di capitalismo – progressivamente prendesse il sopravvento sulla democrazia e finisse per relegarla a una pura parvenza di procedura.
Il dito di Streeck punta contro le politiche neoliberiste, la trasformazione di istituzioni finanziarie e apparentemente tecniche in organi decisionali sovraparlamentari. Tutto questo – donde appunto il titolo – per far «guadagnare tempo» a un capitalismo ormai alla fine della sua parabola propulsiva. La conclusione di Streeck è che oggi non solo abbiamo perso ogni traccia di capitalismo democratico, come in effetti fu alle origini, ma stiamo vivendo in un’epoca di capitalismo senza democrazia, in cui – purtroppo o per fortuna – le strade tra questi due cardini dello sviluppo economico mondiale degli ultimi due secoli sembrano essersi definitivamente separate. Il compito che spetta alla sinistra non è da poco, si tratta di rifondare la nostra società, altro che di sbiancare vecchi sepolcri, come sembrerebbero intendere gran parte degli intellettuali italiani.
Democrazia ed eurozona. Streeck non si nasconde il succo del problema, ma non si fa illusioni: «democratizzazione dovrebbe significare la costruzione di istituzioni in grado di sottoporre nuovamente i mercati al controllo sociale: dando vita a mercati del lavoro che lasciano spazio alla vita sociale, a mercati dei beni che non distruggano la natura, a mercati del credito che non istigano a far proliferare promesse che nessuno potrà mantenere». Ma questo programma, necessario, non può essere assunto nel breve periodo, perché «sarebbero necessari anni di mobilitazione politica e di incessanti disordini nei confronti di quell’ordine sociale che al momento si sta costituendo» (p.201).
Un altro cruciale punto riguarda l’Unione Monetaria Europea, che contrariamente a quello che sembra essere un punto fermo del «programma» della sinistra italiana, non è un tabù. Anzi ora il problema è serio, perché un tempo «l’UME era costituita esclusivamente da paesi democratici i cui governi non potevano o non volevano dichiarare guerra ai popoli dello stato, i quali hanno una loro esistenza reale e differiscono dal modello immaginario di popolo elaborato da una dottrina del capitalismo di mercato». Da tempo le cose sono cambiate. Abbiamo bisogno di nuovi istituti e in particolare di istituti che ci consentano di uscire da uno scenario in cui, per un tacito volere, il destino dell’Europa e dei suoi popoli deve coincidere con il «mercato». La democrazia nell’eurozona è possibile, ma questa possibilità passa attraverso un radicale cambiamento nell’organizzazione istituzionale, che anche qui non sarebbe possibile nel breve.
L’euro, un esperimento frivolo. L’euro – per come è stato realizzato – rappresenta la forma più influente di una politica economica priva di parlamenti, di governi e di consenso popolare, la manifestazione più clamorosa di quel processo di perseguimento di finalità neo-mercatiste tacite, che hanno consentito appunto al capitalismo non democratico di guadagnare tempo e prolungare la sua fine. Ora, prima che altri correttivi riescano a prolungare questo processo, è necessario intervenire con decisioni che nel breve riequilibrino la situazione a vantaggio della democrazia e degli interessi reali dei popoli. Non c’è che da agire sull’euro. L’euro è stato un «esperimento frivolo» e deve essere riformato. Potrà restare come moneta di conto o come valuta parallela, ma vanno restituite alle politiche economiche nazionali le facoltà discrezionali che solo una valuta nazionale può avere.
La svalutazione non è un male. La possibilità di svalutare una moneta non è solo un male, anzi presenta molti aspetti positivi. «La svalutazione di una moneta nazionale corregge i rapporti di distribuzione all’interno di un sistema asimmetrico di scambi economici internazionali … è uno strumento grossolano, ma dal punto di vista della giustizia sociale è sempre meglio di niente …impedisce ai paesi più «competitivi» di costringere quelli meno «competitivi» a ridurre il reddito dei cittadini che guadagnano meno, in modo tale che chi guadagna di più possa tranquillamente ritirare la sua Bmw al prezzo fissato dal produttore dei paesi» più competitivi … «la svalutazione funziona come l’handicap in sport come il golf o l’ippica» riequilibrando tra loro i vari partecipanti e rendendo il gioco possibile anche tra diversi, impedendo che i vincenti e i perdenti siano sempre gli stessi.
In definitiva, Streeck propone un accordo monetario, una Bretton Woods europea che si rifaccia alle proposte di Keynes per il dopoguerra, sconfitte dalla soverchiante potenza Usa in complicità con l’Urss. Un accordo che rinunci al modello monetario unificatore, che deve per forza andare bene per tutti e che lasci invece margini alle differenti condizioni economiche nazionali. Il tema del giorno, anche per la sinistra è: quale aspetto dovrebbe assumere in Europa un appropriato sistema di cambio valutario, che possa prendere il posto dell’UME?
Certo bisognerebbe pensare anche a forme di controllo sulla circolazione dei capitali, che evitino le manovre speculative, sempre in agguato. L’uscita dall’euro «significherebbe avviare una politica che definisce i confini della cosiddetta globalizzazione … l’euro è stata e resta una creatura nata dall’euforia della globalizzazione degli anni Novanta». La sinistra (anche quella italiana) farebbe bene a non scordare che non esiste una democrazia sociale senza la sovranità dello stato. C’è qualcuno disposto a riflettere su questi temi?

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