giovedì 1 agosto 2013

STORIA ECONOMICA. DINO MESSINA, I rapporti economici (segreti) fra l'Italia fascista e l'Inghilterra, IL CORRIERE DELLA SERA, 1 agosto 2013

L’economia conosce strade che spesso la politica finge di ignorare fino all’assurdo della creazione di due mondi paralleli. È quanto avvenne per esempio nell’Italia della prima metà del Novecento nei rapporti con la Gran Bretagna, che era e rimase per una gran parte della nostra società il punto di riferimento principale, come oggi sono gli Stati Uniti. Dal punto di vista culturale e soprattutto economico. Non è un caso che Umberto I di Savoia, già scampato a due attentati, poco prima di morire sotto i colpi della rivoltella di Gaetano Bresci (29 luglio 1900) volle sottoscrivere con i Lloyd di Londra un’assicurazione sulla vita e i suoi eredi anche negli anni in cui il Regno Unito era diventato la Perfida Albione decisero di far gestire il capitale del premio assicurativo dalla Banca d’Inghilterra. Nel secondo dopoguerra l’Italia cercò senza successo di dimostrare che quei soldi spettavano alla Repubblica e non alla monarchia.


L’Inghilterra, anche dal punto di vista economico, del resto rimane centrale nei percorsi di Mussolini sin dalle origini. Risale al 1917 e alla fondazione del «Popolo d’Italia» un contributo di cento sterline alla settimana (circa seimila euro attuali) offerti all’ex leader socialista dall’agente dell’Intelligence britannica Samuel Hoare (futuro ministro degli Esteri durante la crisi etiopica). Così la Gran Bretagna, come ha ben raccontato Mauro Canali nel «Delitto Matteotti» (Il Mulino, 2004), ebbe un ruolo fondamentale in quella che viene considerata la prima crisi del fascismo e una delle sue più grandi vergogne. L’ultimo articolo scritto dal grande esponente socialista, prima dell’assassinio, fu pubblicato in Gran Bretagna ed era una denuncia dei «gravissimi casi di corruzione» riguardanti alti esponenti del fascismo che avrebbero dovuto appoggiare la convenzione della società petrolifera Sinclair Oil. In una lettera testamentaria l’assassino Amerigo Dumini sostenne che una tangente di un milione e mezzo era andata ad Arnaldo Mussolini, fratello di Benito.
Naturalmente dell’affare petrolifero si parlò pochissimo così come non venne dato grande risalto a una notizia che ai nostri occhi risulta clamorosa, cioè la cessione alla British Petroleum nel 1934 di tutti i pozzi di petrolio che l’Italia (con l’Agip) era riuscita ad accaparrarsi in Iraq. Un vero colpo di testa di Mussolini, il quale dopo aver giocato d’astuzia con la Gran Bretagna e le Sette Sorelle decise di cedere le concessioni perché aveva bisogno di soldi per finanziare l’impresa africana. Anche su questa storia è istruttivo un libro di Canali, «Mussolini e il petrolio iracheno. L’Italia, gli interessi petroliferi e le grandi potenze» (Einaudi, 2007). Pochi ricordano che l’Italia sanzionata dalla Società delle Nazioni conquistò l’effimero impero africano grazie al petrolio venduto dagli Stati Uniti.
Mentre il fascismo faceva la guerra ideologica alla Perfida Albione, che dal 1937 al maggio 1940 ebbe come primo ministro il campione dell’appeasement Neville Chamberlain, a Roma e Milano prosperava nella società reale un partito filobritannico che aveva i suoi esponenti nella grande borghesia dei Lepetit, dei Piaggio, dei Pirelli. Mussolini del resto considerava un nemico politico uno dei maggiori esponenti del fascismo, Dino Grandi, ex ministro degli Esteri che negli anni Trenta ebbe un ruolo centrale come ambasciatore a Londra.
Con l’arrivo della guerra il bonario Chamberlain venne sostituito dal determinato Winston Churchill, che fu spietato nella lotta al nazifascismo ma che con Mussolini, come testimoniano anche scritti degli anni Venti, ebbe una relazione di stima (anche in funzione anticomunista). Ma questa è una storia diversa

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