mercoledì 10 luglio 2013

ECONOMIA CRIMINALE. PALLADINO E FITTIPALDI, Rifiuti, la grande mangiatoia, L'ESPRESSO, 9 luglio 2013

Guadagnano milioni di euro ripulendo le nostre strade, gestiscono attraverso monopoli centinaia di migliaia di tonnellate di spazzatura, controllano discariche grandi come città, investono nell'affare degli inceneritori, trattano con i politici e le amministrazioni locali, finiscono - spesso - nelle inchieste della magistratura per reati ambientali e corruttivi. Sono i signori della monnezza "made in Italy", un pugno di imprenditori che da anni si spartisce un business che vale miliardi di euro l'anno, grazie a uno Stato che ha di fatto deciso di affidare ai privati un servizio pubblico strategico. In un paese, il nostro, dove il ciclo integrato dei rifiuti resta una chimera, i livelli medi di raccolta differenziata sono al palo e le emergenze - soprattutto al Sud - non sono l'eccezione, ma la norma. 



IL SUPREMO DI MALAGROTTA. Se si volesse stilare una classifica virtuale degli uomini più potenti del settore, al primo posto ci sarebbe senza dubbio il laziale Manlio Cerroni, il proprietario di Malagrotta, la più grande discarica d'Europa estesa come 150 campi di calcio. Un ultraottantenne nato nel borgo di Pisoniano nel lontano 1926 (è stato tre volte sindaco del suo paese, nonché sponsor della squadra di calcio) chiamato da ex dirigenti regionali, in alcune intercettazioni ancora secretate, «il Supremo». Un nomignolo che dice tutto. Perché Cerroni, oltre a Malagrotta, controlla termovalorizzatori, discariche e impianti di trattamento rifiuti non solo nel Lazio e in altre regioni italiane, ma in giro per il mondo. Il suo regno si estende dall'Argentina all'Australia, passando per Brasile, Egitto, Oman e Lituania. Oggi, secondo stime prudenziali, il valore del gruppo potrebbe superare i due miliardi di euro.

Manlio Cerroni L'imprenditore, carattere ruvido e spregiudicato, tratta monnezza da 66 anni. In una lettera spedita a chi scrive, spiega di considerarsi «un self-made man: dai miei colleghi» dice «sono considerato il numero uno, per creazione, per impegno, per lavoro, per esperienza». "L'Avvocato", come lo chiamano i suoi dipendenti, nonostante l'età continua a gestire tutto in house, con la collaborazione delle due figlie e di pochi, storici collaboratori. Il suo nome è diventato noto negli anni Settanta, quando riuscì a mettere le mani su un "grande buco" vicino al Raccordo anulare, una cava esaurita di ghiaia e sabbia usata nel dopoguerra per la costruzione dei quartieri della Tuscolana e dell'Appia nuova. La discarica viene inaugurata nel 1978 (al tempo, sussurra qualcuno, l'Avvocato aveva ottimi rapporti con la Dc) e da allora i politici di destra e di sinistra, dai peones locali ai ministri, hanno dovuto fare i conti con lui, consapevoli che se "l'ottavo re di Roma" avesse deciso di chiudere bottega, la Capitale sarebbe sprofondata nel suo pattume in poche ore. «Malagrotta è stata la fortuna e la salvezza di Roma, facendo risparmiare ai romani oltre due miliardi di euro rispetto alle quotazioni di mercato», ripete Cerroni a coloro che osano criticare il suo macroscopico monopolio. Se nel corso dei decenni si sono accumulate decine di denunce per inquinamento, le inchieste - va ricordato - non lo hanno mai scalfito.

Almeno finora: come "L'Espresso" ha raccontato qualche mese fa, infatti, l'Avvocato e i suoi fedelissimi sono finiti nel mirino dei pm di Velletri, che hanno aperto un'inchiesta su un impianto localizzato ad Albano ipotizzando reati gravissimi, come associazione a delinquere e concorso in truffa ai danni dello Stato. Il pm nel 2012 chiese addirittura gli arresti, ma il gip dichiarò la propria incompetenza territoriale girando il fascicolo ai colleghi della procura di Roma, che oggi indagano anche sulle vicende di Malagrotta. «Mi sarei aspettato» scrisse a Cerroni a "l'Espresso" dopo l'articolo sulle sue disavventure giudiziarie «che una "carrozza" ci avesse portati in Campidoglio per ricevere dal sindaco un grazie per quanto fatto dalla città, come nell'antica Roma. E invece, altro che carrozza! Mi ritrovo sbattuto nel girone dei delinquenti... l'unico appellativo che mi si attaglia è quello di benefattore!». Per la cronaca, Malagrotta - che per legge dovrebbe essere chiusa da anni - ha ottenuto giorni fa l'ennesima proroga.

AFFARI GROSSI. Se Cerroni è il ras incontrastato nel Lazio, in Lombardia comanda la famiglia Grossi. Il fondatore della Green Holding è il mitico Giuseppe - scomparso poco tempo fa - per decenni a capo di un gigantesco impero economico fondato su discariche e bonifiche. Schivo, dai modi sbrigativi, Grossi - il cui scettro è ora passato alle figlie - era legato a doppio filo con Comunione e Liberazione (quando nel 2009 fu arrestato, davanti la sua cella c'era la fila di politici che volevano andarlo a trovare, da Maurizio Lupi a Gabriele Albertini) e all'ex governatore Roberto Formigoni.

Salì agli onori della cronache alla fine degli anni Novanta, quando riuscì ad acquistare il colosso americano Browning-Ferris Industries, punto di partenza per l'assalto al mercato dei servizi ambientali. Da allora il gruppo ha macinato appalti a go-go, gestendo (attraverso una complessa holding con il cuore finanziario nei paesi a fiscalità privilegiata) discariche per rifiuti pericolosi, invasi per rifiuti urbani e l'inceneritore di Dalmine, in provincia di Bergamo.

Quando la procura di Milano lo arrestò per la vicenda della bonifica mancata di Montecity nella sua villa trovarono un piccolo tesoro: sei milioni di euro in Rolex pregiati, una collezione di Ferrari e altre auto di lusso, senza parlare di ville e terreni sparsi in tutt'Italia. Gli ex manager che lo hanno conosciuto lo ricordano come uno tosto: «Qualcuno lo considerava un parvenu del settore ambientale, e lui non perdeva occasione di mostrare ai concorrenti quanto fosse duro: era uno che non faceva prigionieri». Ad affiancarlo nella gestione della monnezza aveva chiamato al suo fianco Cesarina Ferruzzi, conosciuta nell'ambiente come "Madame Dechets". Di lei, "la signora della spazzatura", Grossi si fidava come nessun altro: tecnico ambientale che iniziò la sua carriera riportando in patria con la Jolly Rosso i rifiuti tossici sparsi in Libano dagli italiani alla fine degli anni Ottanta, diventò poi la sua alter ego, tanto da finire anche lei coinvolta nell'inchiesta milanese sulla bonifica di Montecity. Ne è uscita con un patteggiamento.

CI MANDA MARCELLO. Anche Giovan Battista e Pier Paolo Pizzimbone, i ras liguri della monnezza, hanno amicizie che contano. Supporter di Silvio Berlusconi, possono contare sul rapporto quasi fraterno con Marcello Dell'Utri. Per i maligni, conoscenze necessarie per trasformare una piccola cooperativa di Vercelli in un gigante che controlla una fetta importante del business dei rifiuti solidi urbani. I Pizzimbone sono liguri di origine, ma siciliani di adozione. Capiscono presto che per fare carriera bisogna masticare monnezza e politica. La passione per la spazzatura è ereditaria (è il padre il primo ad entrare nel business), ma sono loro a spiccare il volo: dopo aver ottenuto il predominio a Imperia e nella Liguria, nel 2004 comprano la Aimeri, con cui invadono decine di Comuni al Nord incluse le città rosse della Romagna. Vincono poi due maxi-appalti al Sud, quelli per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a Caltanissetta e a Catania. Sarà un caso, ma il volto politico della famiglia, il quarantenne Pier Paolo, sarà primo dei non eletti per il Pdl nel collegio catanese alle elezioni del 2008.

L'esperienza siciliana dei fratelli Pizzimbone, però, ha alternato alti e bassi: alcuni dipendenti delle loro aziende in provincia di Catania sono infatti finiti in guai giudiziari a causa della (presunta) vicinanza a Cosa nostra. Il 26 aprile scorso la Dia di Catania ha sequestrato un milione di euro a Roberto Russo, già responsabile tecnico-operativo di una delle società dei Pizzimbone, ritenuto dagli investigatori a capo di «un complesso meccanismo di traffico illecito di rifiuti in forma organizzata». Lo scorso fine maggio un'altra tegola, stavolta finanziaria: i 14 comuni catanesi che si servivano della Aimeri hanno deciso di rescindere il contratto. Motivazione: un servizio «assolutamente inefficiente».

Pietro Colucci, napoletano di 53 anni, è invece specializzato nella gestione dei rifiuti industriali. Insieme al fratello Francesco, ha costruito il suo colosso partendo dalla raccolta della spazzatura in Campania. Terra difficile, dove le aziende spesso rischiano di essere infiltrate dai clan, attirati da guadagni a sei zeri. Insieme al fratello Francesco, Pietro fonda una piccola azienda a San Giorgio a Cremano, ma nel 2000 sono già così forti da poter mettersi in tasca la Waste Management Italia, colosso del settore acquistato in cordata con la famiglia Fabiani dell'Italcogim. «Nel 1996, però, decidemmo di lasciare la Campania - spiega Pietro a "l'Espresso" - Quando mio fratello volle tornare, ci siamo separati». Con il gruppo Unendo Francesco resta nel business dei rifiuti urbani, mentre Pietro punta tutto sulle energie rinnovabili e sulla gestione degli scarti non pericolosi delle industrie.

Per il fratello anziano è una fortuna: una delle aziende di Francesco, la Daneco, da due anni e mezzo è infatti al centro dell'inchiesta della Procura di Milano sul recupero dell'area ex Sisal di Pioltello. Un'inchiesta ha colpito anche il terzo fratello Nicola, che siede nel consiglio di amministrazione della discarica Ecoambiente a Latina, dove è indagato per avvelenamento delle acque insieme al braccio destro di Cerroni Bruno Landi.

Anche ricostruendo la storia dei Colucci sembra che per trasformare in oro la monnezza sia necessario - oltre al know-how, alla capacità imprenditoriale e ai capitali - avere buoni rapporti con i politici. «Una decina di anni fa le diverse società del gruppo hanno ampiamente finanziato prima Forza Italia e poi Alleanza nazionale» ammette Pietro, «Ma pagavamo anche le feste dell'Unità, sempre in maniera legale e trasparente». A che servivano queste donazioni? «A nulla: per noi era solo una questione di visibilità». Se Francesco può vantare ancora oggi una solida amicizia con Gianfranco Fini, Pietro, da parte sua, non nega il suo stretto rapporto con Edo Ronchi, l'ex ministro verde degli anni '90, suggellato attraverso la partecipazione alla Fondazione Sviluppo Sostenibile: «Edo? Certo che lo conosco: è un amico e un galantuomo».

VERDE LEGA. Nella lista dei signori della monnezza più influenti c'è di tutto. Il leghista Giovanni Fava, onorevole dimessosi poche settimane fa perché chiamato da Roberto Maroni a fare l'assessore all'Agricoltura della Lombardia, ha una sfilza di cariche e quote nelle società Econord snc, Econord servizi ambientali srl, Palladio team Fornovo srl, Palladio team spa, Programma ambiente spa e Team ambiente spa, tutte dedicate allo smaltimento e ai rifiuti; in Calabria, invece, uno degli imprenditori più in vista è Raffaele Vrenna, presidente del Crotone calcio e gestore - attraverso le società controllate dalla holding di famiglia, la V&V group - della grande discarica ìdi Columbra. Vrenna, che è stato anche vicepresidente della Confindustria regionale, qualche anno fa è stato accusato di concorso esterno in associazione mafiosa dalla Dda di Catanzaro, accusa dalla quale è stato assolto in appello. 


Anche in Puglia un imprenditore specializzato in rifiuti è riuscito a scalare l'associazione degli industriali cittadina: Antonio Caramia, tendenza centrodestra, due figlie e proprietario dello sversatoio Italcave di Taranto (accoglie i rifiuti industriali del siderugico Ilva, ma anche il carbone che viene dall'Eni di Gela e i rifiuti della Campania) ne è infatti diventato presidente. Insieme al fratello Saverio nella città dei due Golfi è considerato uno che conta: ricchissimo, ha diversificato lanciandosi sulle attività portuali (possiedono un terminal per merci sfuse) e su uno stabilimento balneare, la Fata Morgana. Negli anni '80 i Caramia fondarono anche una tv locale, Canale Uno, che però non ebbe fortuna.

RAS A PESCARA. In Abruzzo il padrone del settore si chiama invece Rodolfo Di Zio, monopolista incontrastato di Pescara e dintorni: la sua Deco, fondata nel 1989, in pratica controlla il ciclo integrato dei rifiuti in tutta la regione, garantendo all'azienda incassi milionari che Di Zio ha investito anche all'estero. In particolare, in Africa: la società Ecotì s.a., che gestisce impianti e centri di trasferimento su tutto il territorio tunisino, è sua. Di Zio, già arrestato una volta nel 1994 per corruzione (fu poi prosciolto), nel 2010 è stato travolto da una nuova inchiesta giudiziaria che ha messo in luce i rapporti strettissimi tra l'imprenditore e i politici, sia locali che nazionali: secondo i magistrati di Pescara che lo ha prima arrestato e poi rinviato a giudizio per corruzione, Rodolfo sarebbe stato al centro di un'operazione criminosa per costruire un inceneritore a Teramo. Di Zio prima avrebbe finanziato alcuni uomini di partito per ottenere l'appalto senza partecipare a gare pubbliche, poi avrebbe brigato per ridurre la quota obbligatoria di raccolta differenziata dal 40 al 25 per cento, in modo da avere più rifiuti da bruciare nel suo termovalorizzatore.


Secondo la procura che lo ha intercettato per mesi, l'imprenditore «dava soldi a tutti»: pagava senatori del Pdl come Paolo Tancredi e Fabrizio Di Stefano (di recente per loro l'accusa di corruzione è caduta), sindaci e assessori compiacenti, mentre 94 mila euro sembrano siano finiti in favore di candidati della lista del governatore Gianni Chiodi. Ma il signore della monnezza pagava anche qualche quadro del Pd. «Sono apolitico, nel senso che noi non facciamo politica» ragionava Di Zio in un'intercettazione, «non ho rapporti soltanto con la destra, io ce li ho anche con la sinistra». Si sa, gli affari sono affari. E per essere sicuro di farne di buoni, in Italia, è meglio ungere tutti.

Nessun commento:

Posta un commento