giovedì 2 agosto 2012

TEORIE ECONOMICHE. CARRA A., Debito e PIL, 4 punti per cambiare, IL MANIFESTO, 31 luglio 2012

Mercato e liberismo non sono la ricetta del futuro. Sull'analisi della crisi siamo d'accordo. Ma qui cominciamo i problemi. Perché le esperienze in atto non riescono a fare massa critica, a cambiare gli stili di vita, i prodotti e il modo di produrre? Qualche idea per andare verso un'altra economia.

Aldo Eduardo Carra è esperto di economia e di congiuntura, collabora con l’IRES CGIL e con diverse riviste di economia politica. Con Ediesse ha pubblicato L’economia in tasca (2006), Ho perso la sinistra (2008), Un paese da scongelare (con C. Putignano, 2010).
Le analisi sulla crisi si susseguono e possiamo dire che a sinistra esiste ormai una condivisione abbastanza diffusa. Capita, però, di avvertire alla fine di molte analisi, anche molto interessanti come ad esempio l'ultima di Guido Viale, una sensazione di impotenza a cambiare veramente il corso delle cose. Gli aspetti ormai comuni a gran parte della sinistra sono due.
Il primo è che da questa crisi non si esce con l'austerità. Ormai non ci sono più dubbi: la crisi è nata negli Usa che, per salvare le banche, hanno accresciuto il loro debito, dal 2007 al 2011, di ben 6.116 miliardi di dollari, un ammontare pari alla somma dei debiti complessivi attuali di Francia, Italia, Spagna, Grecia, Portogallo; l'offerta di una massa così enorme di titoli ha creato un effetto propagazione che ha generato nel mondo maggiori debiti per 20.657 miliardi; poiché nel frattempo il Pil mondiale cresceva di 13.982 miliardi ed i risparmi di soli 3.148 miliardi, si è creato un forte squilibrio tra domanda ed offerta che ha causato la corsa verso i titoli più affidabili e scaricato la crisi in Europa, dove alcuni paesi avevano situazioni debitorie antiche e tollerate che adesso sono diventate insostenibili. Se questo è lo scenario è chiaro che dalla crisi non si può uscire con politiche di austerità che mettono in ginocchio prima i paesi più indebitati e poi a catena anche gli altri.
Da qui scaturisce il secondo aspetto: il ricorso a governi "tecnici" può solo servire a far passare misure severe che i politici non hanno la forza di assumere, ma non risolve né i problemi del debito né quelli dello sviluppo. Così i bei titoli dati ai provvedimenti presi - SalvaItalia, CrescItalia, Calmaspread - sempre più somiglianti a prodotti farmaceutici da banco, hanno avuto il sapore amaro delle medicine, ma non hanno migliorato per niente lo stato di salute dell'economia. La constatazione che ne discende è che da questa crisi non si potrà mai uscire assumendo il solo debito come unico male da curare.
Tutto questo dimostra che la superfetazione finanziaria del capitalismo lo sta portando in un vicolo cieco ed a sinistra possiamo trarne la conferma che mercato e liberismo non sono la ricetta del futuro e che occorre cambiare modello di sviluppo. Fin qui tutto ok.
Ma da qui in poi cominciano i problemi perché se le analisi appaiono solide e condivisibili, non altrettanto si può dire delle proposte.
Il dibattito a sinistra finora ha prodotto idee sulla riconversione ecologica, sulla redistribuzione sociale, sull'economia partecipata, sullo sviluppo dell'economia di territorio valorizzando, come esemplari, alcune esperienze che contengono germi di nuova economia (Gas, Gat, cooperazione sociale...).
Ma è sufficiente valorizzare questi germi per generare una mutazione epocale e strutturale dell'economia nell'era della globalizzazione?
Possiamo fermarci nelle nostre analisi a questo punto senza chiederci perché le interessanti esperienze in atto non riescono a fare massa critica, a creare realtà diffuse di nuovi stili di vita, di nuove produzioni e di nuovi modi di produrre?
Ed inoltre, pensiamo che questo avverrà come sbocco naturale di una evoluzione lineare di queste esperienze o non dobbiamo affiancare ad esse anche un altro percorso?
Naturalmente chi scrive pensa questo ed allora, nei limiti propri di un articolo, vorrei chiedere se possiamo concentrare la nostra attenzione su alcuni nodi che è necessario sciogliere per poterne poi far discendere proposte concrete.
Per sollecitare questa ricerca provo a sottoporre alla discussione quattro punti:
a)- il ruolo che le forze imprenditoriali, cooperazione compresa, dovrebbero svolgere nella trasformazione del modello di sviluppo. Si tratta di valutare se e come costruire relazioni/alleanze/convergenze con tutti gli imprenditori disponibili ad investire in settori che producono beni e servizi del futuro, realizzando modelli organizzativi di produzione partecipata. Si tratta di dare concretezza all'idea di nuovi prodotti e servizi, realizzati in modo nuovo, e di far uscire il tema delle alleanze dal politicismo con cui esso viene oggi affrontato.
b)- il ruolo che in questa mutazione spetta agli enti locali. Essi si dibattono oggi in difficoltà che rischiano di aumentare ancora vanificandone la funzione. Proprio per questo diventa necessario che essi agiscano con una nuova cultura di "imprenditori territoriali" che sollecitano ed organizzano le risorse del territorio mettendo in moto lavoro volontario, risorse economiche ed imprenditoriali ed attivando progetti ambiziosi di sviluppo e di valorizzazione per far intravedere ai soggetti economici l'utilità di investire oggi per trarne benefici futuri. Si tratta, cioè, di riconvertire la funzione stessa delle istituzioni locali da strutture di erogazione di assistenza e di servizi a strutture che, senza rinunciare a quelle funzioni, riescano a promuovere sviluppo economico e qualità dei servizi e della vita nel territorio.
c)- il ruolo dello stato e dell'Europa. Una politica come quella prospettata difficilmente potrà fare a meno di incentivi pubblici. Questi incentivi oggi ci sono, anche se ridotti, e si tratta di pensare ad un neokeynesismo fatto non più di elargizione di risorse per alimentare i consumi, ma di finalizzare gli incentivi alla trasformazione del modello di sviluppo. E' necessario, per questo, che la sinistra affronti il tema della individuazione dei settori, produttivi di beni e servizi che dovranno caratterizzare il nostro futuro, proponendo modelli di relazioni tra mondo della produzione e mondo delle ricerca per realizzare nuovi prodotti e nuovi modi di produrre. Si tratta, quindi, di costruire una funzione nuova per l'incentivazione trasformandola in strumento per indirizzare l'economia verso la riconversione e la sostenibilità sociale ed ambientale.
d)- Un altro nodo da affrontare è quello del lavoro e della sua ripartizione. Tra lavori pesanti e sottopagati scaricati sugli immigrati, precarizzazione irrefrenabile del lavoro, crisi profonda della funzione sociale e di aggregazione dei luoghi di lavoro, ghettizzazione tra i "protetti" di quel poco di lavoro regolato e regolare che rimane, si dovrebbe avviare una discussione molto aperta sulla redistribuzione del lavoro non solo in termini di orari, ma come ripartizione dei carichi tra uomini e donne, tra giovani ed anziani, tra lavori produttivi e lavori sociali. Un nuovo modello di sviluppo non dovrebbe prescindere da un nuovo modello di ripartizione del lavoro tra gli individui di una società.
Naturalmente quelle accennate sono solo indicazioni di massima da sviluppare. Dovremmo farlo, però, rapidamente perché se è vero che il liberismo non sa più dove mettere le mani per uscire dalla crisi, è anche vero che la sinistra non può fermarsi alle giuste analisi, ma deve indicare un percorso di riconversione capace di coinvolgere soggetti sociali ed imprenditoriali e deve farlo a livello sovranazionale e quantomeno a livello europeo

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