domenica 5 agosto 2018

TEORIE ECONOMICHE. DE GRAUWE. S. MAROTTA, Paul De Grauwe e il pendolo dell’economia tra mercato e pianificazione, ECONOMIA E POLITICA, SINISTRAINRETE, 30 luglio 2018

Limiti interni e limiti esterni del sistema economico
È uscita in questi giorni per i tipi de «Il Mulino» la traduzione italiana del libro di Paul De Grauwe I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia? Si tratta di un testo importante se non altro perché è stato scritto da uno dei maggiori studiosi dell’economia dell’Unione europea, autore del manuale sul quale si formano le nuove generazioni di economisti nelle università di diversi Paesi dell’Unione.


Ma il libro è soprattutto un esempio di chiarezza nell’esposizione di problemi economici complessi che diventano immediatamente comprensibili anche per i non addetti ai lavori. De Grauwe non è un sostenitore di teorie economiche antisistema, ma è anzi un economista molto ascoltato che insegna alla London School of Economics: fonda le sue tesi sulle teorie di studiosi sicuramente mainstream come Daniel Kahneman, vincitore del premio Nobel per l’economia 2002, o Raghuram G. Rajan e Luigi Zingales[1], e su teorie politiche di grande successo come quelle di Robinson e Acemoglu[2].
La tesi principale sostenuta nel libro è che il mercato così come oggi lo conosciamo non ha ancora molto tempo innanzi a sé e che le prospettive per il futuro sono tutt’altro che rosee. Il mercato, infatti, rischia di raggiungere presto i suoi limiti e di andare a sbattere contro un muro. Secondo De Grauwe il muro che il mercato si troverà innanzi è costruito, innanzitutto, dall’interno attraverso l’accentuarsi, oltre ogni limite, della diseguaglianza nella ricchezza materiale. Ciò, alla lunga, non è sostenibile e darà luogo, come è già avvenuto in passato, a una reazione violenta da parte di coloro che si vedono privati dei necessari mezzi di sostentamento e che diventano ogni giorno più numerosi.
Ma questo limite interno non è il solo e non è neanche il più pericoloso. L’altro limite è esterno al mercato ed è quello ambientale dal momento che il mutamento climatico, di cui oggi vediamo chiaramente gli effetti, non ha un andamento lineare e quindi non possiamo prevedere se e quando si verificheranno eventi catastrofici che sconvolgeranno il sistema economico prima ancora che raggiunga i suoi limiti interni.
Di questi due gravissimi pericoli che incombono sul mercato come due pesanti spade di Damocle, il primo è generato, secondo De Grauwe, dall’errata convinzione maturata dagli economisti – e acquisita poi dai mercati – che l’uomo si comporti nelle sue scelte quotidiane come un essere razionale. Senonché è necessario convincersi che il cosiddetto homo oeconomicus immaginato dagli studiosi non è, in realtà, quello che determina i comportamenti individuali. E ciò sarebbe dimostrato, tra l’altro, dagli studi dello psicologo israeliano Daniel Kahneman, sui comportamenti irrazionali degli esseri umani nel campo economico. Kahneman «ha sviluppato l’idea – sono parole di De Grauwe – che all’interno del nostro cervello siano in funzione due diversi sistemi. Il Sistema 1 è legato al comportamento emotivo e intuitivo ed è il più antico in termini evolutivi. Questo governa le emozioni come paura, panico, euforia, simpatia, disgusto e così via, ed è anche il sistema che regola le emozioni come l’amore e il sentimento di giustizia. Il Sistema 2 è la parte della mente umana razionale e calcolatrice. È il sistema che ci porta a soppesare ciò che è meglio per il nostro benessere, facendo analisi costi-benefici prima di arrivare a prendere una decisione» (p. 25). Questi due sistemi sono in lotta tra loro determinando e condizionando nelle diverse contingenze il comportamento individuale. L’individuo è portato più spesso ad agire seguendo il Sistema 1, quello irrazionale, soprattutto perché è più veloce ed è quello più facile da usare. Mentre il Sistema 2 comporta un notevole sforzo da parte dell’individuo che non sempre viene realizzato: «Secondo Kahneman, il Sistema 2 è “pigro” e ciò può eventualmente portare gli individui a fare calcoli non sufficientemente razionali e a lasciar guidare il processo decisionale al Sistema 1 (il sistema emotivo)» (p. 26).
Insomma il comportamento irrazionale finisce per prevalere nelle scelte dei consumatori e anche delle aziende generando una frattura tra la razionalità individuale e la razionalità collettiva che mette in crisi le basi stesse su cui si fonda l’idea di mercato.
Quanto al limite esterno al sistema economico costituito dalla questione ambientale, De Grauwe sostiene che i mercati non siano in grado di risolvere da soli il problema delle esternalità negative, cioè dei danni e delle mutazioni che la produzione industriale provoca all’ambiente i cui costi non vengono calcolati dall’economia. «Nel sistema di mercato – sono parole di de Grauwe – non c’è niente che impedisca alle aziende e ai consumatori di generare costi esterni a meno che non ci sia uno stato che interviene ponendo un freno. In altre parole, non esiste un meccanismo regolativo interno per cui l’ambiente può opporsi ai costi esterni che ricadono su di esso» (p. 73).

Possibili rimedi
Sia per quanto riguarda l’eccesso di diseguaglianza che per il limite ambientale, l’unico legittimato a intervenire per correggere la rotta è lo Stato. Si tratta di una ricetta classica che De Grauwe ritiene l’unica possibile dal momento che non si vede quale altra istituzione possa impedire che si superino i livelli tollerabili di diseguaglianza o che si limitino le esternalità negative prodotte sull’ambiente dal funzionamento del mercato anche contrastando la volontà e gli interessi dei singoli individui.
Ma De Grauwe non è certo un sovranista alla Trump, tutt’altro. L’economista della LSE non crede affatto che bisogna ridurre le imposte. Pensa, invece, che sia giunto il momento di tassare i redditi e i patrimoni più elevati per porre mano a una significativa politica redistributiva volta a diminuire il livello di diseguaglianza. Solo un’azione di questo tipo potrebbe salvare il libero mercato e sanare quella che Stiglitz ha chiamato la «grande frattura» tra chi ha troppo e mira ad avere sempre di più e chi rischia di non avere più nulla. «Una drastica politica di redistribuzione focalizzata sui più ricchi che ricevono redditi estremamente alti, andrebbe pertanto a beneficio del sistema di mercato, rafforzando nella società il sostegno al sistema ed evitando che esso si scontri con i suoi limiti interni» (p. 92).
Lo Stato, dicevamo, è l’unica istituzione in grado di prendere questo tipo di decisioni anche contro la volontà dei più ricchi. Secondo De Grauwe, perché lo Stato possa redistribuire non può essere che una istituzione democratica fortemente inclusiva che rispetti gli interessi di tutti, ma che torni a scegliere di perseguire gli interessi collettivi risolvendo nel modo più adeguato, per gli individui e per il mercato, il problema dello scontro tra razionalità individuale e razionalità collettiva. Solo lo Stato democratico può garantire la giusta misura degli interventi redistributivi in modo da interrompere il processo di demolizione degli istituti di welfare e, al tempo stesso, di non danneggiare l’economia impedendo la produzione di ricchezza attraverso un eccesso di pianificazione economica. La conclusione di De Grauwe è la seguente: «lo stato può proseguire nella politica redistributiva solo fino a quando la prosperità materiale non ne viene danneggiata. Nell’Europa occidentale e in Nord America siamo ben lontani da quel punto. Nel caso questa soglia dovesse essere superata gli stati raggiungerebbero i loro limiti, e vi sarebbero buone probabilità che il loro ruolo nell’economia venga risospinto indietro» (p. 111).
In questa oscillazione di corsi e ricorsi storici tra un eccesso di pianificazione e un eccesso di laissez faire, De Grauwe individua il pendolo dell’economia che in questo momento è troppo spostato verso il mercato rischiando di provocare danni enormi al sistema economico. È necessario rispingere/reindirizzare il pendolo verso il centro del suo percorso attraverso un intervento dall’esterno che non sia a sua volta troppo invasivo per non spostare eccessivamente il pendolo dall’altra parte.
Ma l’economista della LSE tiene a chiarire bene il punto: «la vecchia discussione se il mercato sia più importante dello stato o viceversa non ci porta da nessuna parte. La sola domanda che vale la pena di porsi è in che modo la divisione del lavoro tra il mercato e lo stato possa essere organizzata al meglio» (p. 119).

Sull’unione monetaria europea
Anche sulla questione dell’unione monetaria, De Grauwe non fa sconti. La zona euro è fortemente squilibrata e tale squilibrio va corretto perché, da un lato, non consente all’Europa di reagire adeguatamente alle crisi economiche e, dall’altro, espone alla speculazione internazionale gli Stati fortemente indebitati.
Sul primo punto Da Grauwe fornisce una prova evidente comparando la reazione alla crisi del 2008 negli Stati Uniti e nel Vecchio Continente e confrontandola con la reazione alla grande crisi del ’29: «mentre il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno visto una ripresa (sebbene debole), nel 2011-2012 l’eurozona è ritornata in recessione. Questa recessione è stata particolarmente profonda nei paesi dell’Europa meridionale (più l’Irlanda) e ha portato a un drammatico aumento della disoccupazione. In alcuni paesi, come Grecia e Spagna, la disoccupazione è salita a oltre il 30 %, una situazione che ricorda la Grande depressione anni Trenta». La seconda recessione è stata causata da un problema strutturale dell’Unione europea: «l’assenza di banche centrali che supportano i governi nazionali ha fatto andare nel panico molti mercati e ha obbligato i governi ad attuare misure di austerità eccessivamente restrittive. Ciò ha portato a sua volta a un netto crollo della domanda complessiva di beni e servizi in un momento in cui l’economia doveva ancora riprendersi. La conseguenza è stata una doppia caduta nella recessione, che ha impedito ai governi di mantenere i disavanzi sotto controllo e che, a causa del crollo del Pil [il denominatore del rapporto], ha finito anche per far aumentare bruscamente il rapporto debito/Pil» (p. 173-4).
In conclusione, De Grauwe è convinto che si possa ancora intervenire sull’economia europea e che lo si possa fare attraverso la collaborazione di tutti gli Stati democratici perché la democrazia è ancora il miglior modo per rappresentare efficacemente gli interessi comuni e per prendere decisioni non a favore dei pochi più ricchi, ma dell’intera collettività.
Nonostante i venti populisti che spirano sull’Europa, De Grauwe pensa che la democrazia possa ancora essere efficace e abbia solidi argomenti per correggere il sistema economico nel senso dell’equità e della giustizia sociale senza compromettere il consenso diffuso per il libero mercato.

Qualche considerazione conclusiva
Come ha recentemente evidenziato Vittorio Emanuele Parsi[3], l’ordine liberale che ha governato gli equilibri politici nelle democrazie occidentali e a livello internazionale fino agli anni Settanta del secolo scorso, era un ordine progressista perché basato sulla redistribuzione e su una ragionata e sostenibile estensione dei diritti sociali a una sempre più ampia fetta di popolazione. La direzione, almeno in Occidente, era quella dell’espansione del ceto medio diretta alla creazione e alla stabilizzazione di una «società dei due terzi».
Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso si è determinata una discontinuità dovuta alla crisi petrolifera degli anni Settanta e soprattutto alle modalità scelte per contrastare tale crisi soprattutto a partire dai governi di Margareth Thatcher in Inghilterra e di Ronald Reagan negli Stati Uniti.
La ricetta pressoché esclusiva in economia diventa quella della Scuola di Chicago che vuole lo Stato fuori dall’economia e il governo quanto più possibile lontano dalla produzione diretta di beni o di servizi sulla base di uno slogan largamente condiviso secondo cui lo Stato era il problema e non la soluzione.
Da allora si può dire che le politiche economiche perseguite nelle grandi democrazie occidentali non sono mai cambiate anche durante i periodi di governi sostenute da forze politiche che provenivano da una tradizione liberale progressista o social-democratica. La direzione di fondo è stata, costantemente, quella dell’estensione dei settori di libero mercato e del ritiro sistematico dello Stato da tutte le attività economiche.
Del resto già all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, Jürgen Habermas aveva affrontato il problema della crisi del «capitalismo maturo» ricordando che il pensiero liberale aveva reso stabile, su un arco temporale relativamente lungo, l’equilibrio tra economia e politica riuscendo a dare «forza vincolante a sistemi di valori rigorosamente universalistici, poiché il traffico di scambio stesso doveva essere regolato universalisticamente»[4].
Habermas aveva anche chiarito come alla crisi del «capitalismo maturo» faceva da sfondo la crisi della democrazia che aveva trasformato radicalmente la sua natura sulla base delle teorie funzionaliste allora dominanti: «per democrazia non si intendono più le condizioni nelle quali tutti gli interessi legittimi possono essere soddisfatti seguendo la via della realizzazione dell’interesse fondamentale per l’autodeterminazione e la partecipazione; essa è ormai intesa solo come chiave di distribuzione di indennizzi conformi al sistema, o come un regolatore per il soddisfacimento di interessi privati; questa democrazia rende possibile il benessere senza libertà»[5].
Oggi De Grauwe, un economista pienamente inserito nella cultura economica dominante, chiede agli Stati democratici e all’Unione europea di prendere finalmente quelle decisioni politiche che dovrebbero evitare che il mercato provochi il suo stesso crollo, rinnovando il compromesso che ha dato vita a quella forma di capitalismo democratico che è tipica delle moderne democrazie occidentali.
Queste ultime appaiono oggi in seria difficoltà proprio perché ridotte a mere forme procedurali e dominate dai particolarismi nazionali, mentre le maggioranze politiche sembrano costruirsi sulle frustrazioni e insoddisfazioni delle classi medie ignorando le questioni più importanti. Non a caso mentre l’Unione europea è in grave difficoltà sia sulla questione delle migrazioni, sia sulle trattative per la Brexit, si riaprono guerre commerciali tra i grandi Stati nazionali dovute alla decisione degli Stati Uniti di imporre dazi sui prodotti provenienti dalla Cina e dal Vecchio Continente.
L’intervento dello Stato proposto da De Grauwe deve, inoltre, fare i conti con un’ulteriore difficoltà. L’economista della LSE propone, infatti, un rimedio che è ancora sostanzialmente basato su una dimensione normativa senza tener conto della difficoltà di tale dimensione. Come ha spiegato Saskia Sassen, si va affermando una nuova normatività che «proviene dal mondo del potere privato ma si colloca nel dominio del pubblico»[6]. Ciò significa che non solo la politica economica oscilla tra mercato e pianificazione, come sostenuto da De Grauwe, ma anche i rapporti tra diritto ed economia hanno un andamento ciclico e che il diritto rischia, soprattutto nell’attuale fase di espansione della razionalità economica, di diventare una semplice infrastruttura di cui l’economia si serve per raggiungere i propri obiettivi[7].

*Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa”

Note
[1] Cfr. R.G. Rajan-L. Zingales, Salvare il capitalismo dai capitalisti, Einaudi, Torino, 2004.
[2] Cfr. D. Acemoglu-J. Robinson, Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity, and Povertyœ, New York, Crown, 2012.
[3] Si veda V.E. Parsi, Titanic. La fine dell’ordine liberale, Il Mulino, Bologna, 2018.
[4] J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari, 1979 (1° ed. italiana 1975) [ed. or.:Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M., 1973], p. 97.
[5] J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Roma-Bari, 1979 (1° ed. italiana 1975) [ed. or.:Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M., 1973], p. 137.
[6] S. Sassen, Una sociologia della globalizzazione, Einaudi, Torino, 2008 [ed.or.: A Sociology of Globalization, Oxford, W.W. Norton & Company, Inc., 2007], p. 39.
[7] Sul punto si veda N. Irti-E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Laterza, Roma-Bari, 2001 e A. Sandulli, Il ruolo del diritto in Europa. L’integrazione europea dalla prospettiva del diritto amministrativo, FrancoAngeli, Milano, 2018.

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