domenica 6 maggio 2018

LAVORO E SFRUTTAMENTO OGGI. CALL CENTER. F. MACALUSO, La meglio schiavitù, L'ESPRESSO, 3 maggio 2018

Cristina di Giorgi è una ex operatrice del call center dell’azienda Almaviva, protagonista attivo del più grande licenziamento collettivo della storia d’Italia, allorquando l’impresa lasciò a casa 1666 lavoratori del proprio stabilimento romano.


Una vicenda molto travagliata, che ha trovato origine nelle iniziative di delocalizzazione operate dall’azienda verso paesi dove il costo e le condizioni di lavoro sono più convenienti. E nell’inefficacia delle iniziative del governo e dei sindacati che non hanno trovato modo di mediare nei confronti di un’impresa così determinata a metter fuori più di un migliaio di lavoratori in un colpo solo.
La Giorgi ha raccontato questa esperienza in un libro lucido che si chiama 2113 RM Storia di due operatrici di call center, edito da Sensibili alle foglie, romanzo che ricostruisce con attenzione questa esperienza con una prosa appassionante.
Cristiana Di Giorgi, prima di entrare nell’argomento del suo libro, ci può raccontare in breve i suoi vent’anni da operatrice di un call center?
Quando mi avvicinai per la prima volta a quel genere di lavoro avevo appena 26 anni e grazie ai turni potevo sia studiare che lavorare. Appena laureata rimasi vincolata al lavoro di operatrice di call center in seguito all'esigenza di accudire mia figlia,  che aveva solo qualche mese di vita. Non abbandonai la cuffia per quello stesso motivo che mi aveva trattenuta sin da subito: il part time. Barattai la flessibilità di orario con contratti atipici che non davano diritto né alle ferie, né alla tredicesima. Scesi a compromessi per gestire in contemporanea dimensione familiare e dimensione lavorativa. La mia storia non è poi così diversa da quella di tante altre donne della mia generazione e di quelle che sono venute in seguito, più volte definite “generazione mille euro”.
Credo che la maggioranza delle persone tratti con gentilezza i suoi ex colleghi. Se questo è vero, vi è coscienza collettiva della difficoltà nello svolgimento di questo lavoro?
Gli utenti dei numeri verdi hanno varie sfumature di cortesia o scortesia. La difficoltà dell'operatore sta proprio nel cercare di mantenere la calma dell'interlocutore anche quando quest'ultimo se la prende con lui perché gli hanno staccato la luce per morosità e tutto quello che conserva nel freezer gli si sta velocemente scongelando. Purtroppo nell'immaginario collettivo l'operatore di call center ha valenza negativa. E' colui che disturba a ora di cena per interviste finalizzate agli exit poll delle elezioni o per convincerti a tutti i costi a cambiare gestore di telefonia. Non c'è un'adeguata coscienza collettiva di questa professione. L'operatore di call center inbound, quello che riceve le chiamate dagli utenti, invece è un impiegato a tutti gli effetti, un addetto che ti risolve i problemi per telefono piuttosto che a un qualsiasi sportello aperto al pubblico. Ricordo che appena ventenne venni spedita dai miei genitori a rateizzare una bolletta del gas negli uffici adibiti a quel servizio e che persi gran parte della mattinata. Per telefono, da operatrice di call center, io facevo proprio quello, rateizzavo fatture del gas, effettuavo volture e gestivo pratiche. La multimedialità ha reso gli sportelli degli uffici luoghi assolutamente virtuali.
Ritengo che l’associazione fra l’operatore del call center e l’azienda che rappresenta sia importante. La reputazione delle imprese che contattano i clienti cambia il “mestiere”?
La reputazione dell'azienda che vai a rappresentare in modalità outsourcing ha il suo peso, l'utente che ti contatta  si approccia verso quell'impresa con pregiudizi negativi o opinioni favorevoli che padroneggiano le sue convinzioni. Quando rispondevo per un ente pubblico mi è capitato spesso che alla prima indisponibilità dei sistemi mi venisse detto che noi impiegati fossimo degli sfaticati e che ci inventassimo scuse per non lavorare.  Non oso nemmeno immaginare quanto sia stato difficile per i colleghi addetti all'assistenza clienti Equitalia dover prestare la loro voce alle cartelle esattoriali! Ciò che per me cambiava il “mestiere” era invece rappresentare aziende ben strutturate e senza tanta burocratizzazione al loro interno che ti permettessero di essere il più possibile operativa. Intendo dire il poter risolvere il problema nell'immediato senza doverlo girare ad ulteriori livelli. Non sempre questo è stato possibile. Era commisurato alla buona architettura di gestione del customer care.
Parliamo del libro: cosa racconta e da dove è venuta l’esigenza di scriverlo?
Il romanzo racconta una storia di grande dignità dei lavoratori. Fa da sfondo alla vicenda il fenomeno della delocalizzazione del lavoro, un devastante tsunami che nel giro di un decennio ha investito il settore dei call center. I lavoratori vengono sottoposti a un ricatto sociale: o avvicinate le vostre paghe a quelle della concorrenza o verrete licenziati. Seppur con sofferenza, riescono a dire di no a un notevole abbassamento di salario, al controllo individuale, al congelamento del TFR e alla perdita degli scatti di anzianità. Con quel no si svegliano da un lungo letargo generazionale, una sonnolenza cronica che ha fatto sì che la politica e la lotta per modificare lo status quo divenissero futili accessori. I figli dei protagonisti del sessantotto finalmente hanno una rimembranza, improvvisamente ricordano l'odore di protesta di quell'epoca che li ha visti bambini. Accanto a loro, sullo stesso palcoscenico, sindacati privi di spina dorsale e un governo di centro sinistra che si schiera dalla parte dell'azienda. L'esigenza di scrivere il romanzo è un qualcosa d'intrinseco alla storia che racconto. La necessità è venuta dal desiderio di giustizia disatteso. Ho desiderato raccontare perché ciò che è accaduto a noi non possa ripetersi anche per altri.
Come ha fatto a distaccarsi da una storia così dolorosa per esprimersi in maniera serena?
La scrittura nasce sempre da un'esigenza di catarsi. Scrivendo ho rielaborato il lutto e, man mano che andavo avanti con la storia, la dimensione soggettiva si affievoliva e lasciava spazio alla vicenda. La serenità è nata riponendo fiducia nella giustizia. Appena siamo stati licenziati abbiamo fatto causa ad Almaviva per licenziamento illegittimo e umanamente confido nella  nostra vittoria finale in tribunale. Quella serenità la mantengo ancora, anche se il giudice assegnato al mio gruppo ha rigettato l'istanza di reintegro facendo valere la facoltà di libera impresa rivendicata da Almaviva. Altri giudici, invece, hanno dato ragione a più colleghi. Hanno riconosciuto nel nostro licenziamento un vero e proprio ricatto sociale e hanno sottolineato l'inadempienza dell'articolo 36 della Costituzione; il quale afferma che il lavoratore abbia diritto a una retribuzione sufficiente a condurre un'esistenza libera e dignitosa. Sono assolutamente serena per un semplice motivo: propendere per l'una o l'altra posizione determina il futuro di questo paese, il nostro paese.
Incrociare i destini delle due protagoniste, un’operatrice italiana e l’altra albanese, è una brillante idea narrativa. La prima si “distrugge” per salvare il suo posto di lavoro, l’altra si emancipa.
Incrociare i destini delle due operatrici di call center, l'italiana Serena e l'albanese Jetmira ha reso bene l'idea di come il dramma dell'una si trasformi nell'opportunità per l'altra. Le due donne sembrano essere accomunate solo dal genere di lavoro che svolgono, in realtà ciò che le avvicina ancor di più nella loro distanza generazionale e culturale è la determinazione che le plasma entrambe. Jetmira, si batte con tenacia per l'emancipazione femminile, ha il mito dell'Italia e risparmia a sufficienza per andare a visitare Roma. Serena, invece, si ribella sino all'ultimo a un destino immeritato. Si strugge in un dimenarsi distopico e si abbandona costruttivamente al momento della resa. Si smonta in tanti piccoli pezzi, tanti mattoncini funzionali a un nuovo progetto di sopravvivenza. Lo fa per adattarsi al cambiamento. La forza di Serena l'ho materializzata nella copertina del romanzo. Sullo sfondo giallo, che richiama l'energia del sole, ho voluto gli occhi. La protagonista guarda avanti con lo sguardo. “Sporgerci verso il mondo, verso l’altro, senza che vi sia possibilità di giudizio e di rendersi soggetto che trascende il dato esterno velandolo del proprio giudizio. È sostanzialmente essere atto puro, «pura coscienza delle cose»”, diceva Jean Paul Sartre in “L'essere e il nulla” del 1943.
Il libro ha un robusto corpo di note, che servono a fondare molte delle sue affermazioni. Così è divenuto un documento importante, una ricerca storica compiuta.
Raccontando del più grande licenziamento collettivo del nostro secolo avevo il dovere di ancorarlo alla realtà dei fatti. Ho semplicemente ricomposto il tutto. Ho messo insieme i pezzi; affermazioni sparse qua e là sui quotidiani e sui media, che assemblate, hanno finalmente preso forma. La figura che ne emerge, spaventa. Ritrae un mondo del lavoro minacciato dal mostro della delocalizzazione e dilaniato dall'apolitica incapacità della classe dirigente, oltre che dalla latitanza delle rappresentanze sindacali.
Leggendo il libro ho capito che nel disastro Almaviva vi siano responsabilità dell’azienda, del governo e del sindacato. A mente fredda, chi è stato più inadeguato?
Le responsabilità non sono mai di un unico attore. L'azienda, oltre alla colpa di aver delocalizzato in Romania, ha anche quella di aver preteso troppo; non si è accontentata solo dei milioni di euro stanziati dal governo per sovvenzionare la cassa integrazione, ma ha voluto anche l'abbassamento del costo del lavoro. Il sindacato, invece, ha parlato a voce troppo bassa, tanto bassa che nessuno gli ha dato retta la notte finale delle negoziazioni, quando ha chiesto una proroga di qualche ora per interpellare nuovamente i lavoratori. Il più inadeguato però è stato il governo che ha fatto sì che si concretizzassero i licenziamenti. Non si è schierato, come avrebbe dovuto, dalla parte dei lavoratori, bensì dalla parte di Almaviva.  Invece di contribuire al salvataggio della sede romana, da una parte ha elargito denaro pubblico per la sede di Napoli, dall’altra si è trovato costretto a finanziare due anni di assegno di disoccupazione a 1666 licenziati. Il governo ha premiato un'azienda niente affatto virtuosa per ben due volte. Invece di escluderla definitivamente dai bandi pubblici per aver portato lavoro all'estero, al contrario l'ha gratificata con sovvenzioni ingenti nonostante abbia delocalizzato.
In maniera ripetuta ha criticato anche i suoi compagni di sventura che non hanno lottato per difendere il proprio posto di lavoro.
Ho visto piazze troppo deserte per essere il teatro di manifestazioni con un nobile intento:  quello di difendere il proprio posto di lavoro.  Ho notato incredulità per tutto ciò che stava accadendo attorno. Ho scorto colleghi muoversi nell'incertezza come piante prive di linfa. E' stato ciò che mi ha fatto più male.
Perché molti giovani rimangono incagliati in un lavoro così penalizzante, svolgendolo per decenni?
Quando da giovane entri in un call center per mantenerti agli studi pensi che quel lavoro sia di passaggio. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, quel lavoro diviene la tua professione. Spesso accade perché fuori da lì non ci siano valide alternative.  Si rimane intrappolati in sabbie mobili che ostacolano qualsiasi altro genere di carriera lavorativa.
Definisce definitivamente chiusa quella esperienza?
Abbiamo circa 1100 cause in corso al tribunale di Roma, intentate proprio per riavere il nostro posto di lavoro. Nessuno fa istanza per un qualcosa che non vuole più. “Fuori di qui c'è il nulla, c'è il job act, ci sono i voucher”. Sono le parole che faccio pronunciare a Serena, la protagonista, in una delle tante discussioni tra colleghi.  I voucher nel frattempo sono stati aboliti,  ma il mercato del lavoro è rimasto comunque inospitale.
Se dovesse dare un consiglio a chi fa oggi si avvicina a questo lavoro, come si esprimerebbe?
A mia figlia di quasi diciassette anni lo dico spesso. 'Non mettere mai piede in un call center, piuttosto fai la baby sitter o la cameriera il sabato sera per recuperare qualche soldino in più'. Intendo dire che è un genere di lavoro che rischia di non farti fare nient'altro nella vita; è difficilissimo uscire dal circolo vizioso dell'operatore di call center.
Lei è in procinto di pubblicare un libro il cui argomento ruota intorno al rapporto tra la comunità Rom e i cittadini della nostra capitale. Il tema degli ultimi la alletta così tanto?
La comunità Rom ha sempre suscitato il mio interesse. Li ho sempre osservati con attenzione, studiandoli nella minima gestualità. Cosa mi affascina in loro?  L'assoluta impermeabilità a ogni sorta d'integrazione culturale, la tenacia con cui perseverano a vivere in una società che non tiene conto del progresso. La devianza è un'inevitabile conseguenza della discrasia tra il permanere di condizioni di vita arcaiche e l'impossibilità di generare reddito in una società dalle regole ben strutturate. E' una comunità che rimane avulsa dal contesto nonostante l'incalzare dell'industrializzazione 4.0 acceleri qualsiasi dinamica sociale, economica e relazionale. Osservando il loro modo di vivere ho spesso riflettuto su come il luogo di nascita e il contesto culturale possano determinare la persona che poi si diventa nella vita. Il mio nuovo romanzo, che sorvola il mondo Rom, è nato proprio da queste considerazioni. Racconta di una donna non Rom impossibilitata ad avere figli, che improvvisamente rapisce una zingarella che piange in una culla di cartone. Lo fa involontariamente e senza premeditazione, convincendosi poi che quel gesto è sì illegale, ma pensando di offrire il riscatto sociale di quella creaturina, che lei ormai sente sua.
La scrittura è la risorsa più grande che in questo momento ha a disposizione?
La scrittura mi ha fatta sentire viva in un momento in cui mi avevano lavorativamente “soppressa” (nella lettera di licenziamento utilizzano proprio questo verbo). Scrivendo ho dato vita a un racconto, ho scritto semplicemente per sentirmi viva. Ora voglio scommettere proprio su questa mia potenzialità. Come in un bel gioco d'azzardo, ho deciso di puntare sulla dote della scrittura più di una fiche.

Nessun commento:

Posta un commento