domenica 4 febbraio 2018

CRISI DELLA GLOBALIZZAZIONE. F. BINI, L'economista King: "Bassa crescita e disuguaglianze: così la globalizzazione è entrata in crisi", LA REPUBBLICA, 4 febbraio 2018

Forze populiste che esplodono incontrollate, organizzazioni sovranazionali abbandonate per via referendaria, la patria del neoliberismo mondiale che si riscopre inaspettatamente protezionista. Qualcosa nel mito inesorabile e infallibile della globalizzazione si è rotto, e un nuovo scenario va delineandosi. È questo "Il mondo nuovo" descritto da Stephen D. King, consulente economico di Hsbc nel suo libro, un saggio che ha già fatto molto parlare di sé all'estero e da poco arrivato anche in Italia edito da Franco Angeli.



Siamo sempre stati abituati a pensare alla globalizzazione come a un fenomeno irreversibile. Il suo libro suggerisce il contrario. Che cosa dobbiamo attenderci esattamente dal futuro: la fine della globalizzazione o la fine di “questa” globalizzazione?
"La storia del mondo lascia intendere che la globalizzazione possa avere alti e bassi. Certamente è facile sostenere che il testimone della globalizzazione stia semplicemente passando dagli Stati Uniti alla Cina, ma in realtà, non è così semplice".

Perché?
"L’Occidente è nei guai in parte perché negli anni passati a causa della frenata della crescita e dell’aumento delle disuguaglianze per molto cittadini si è rotta la luna di miele con la globalizzazione. Molti paesi dubitano comunque delle reali intenzioni della Cina e non si trovano a proprio agio con una leadership non occidentale e che non sia portatrice dei valori liberal democratici. In conclusione: potrebbe delinearsi una competizione per la leadership globale, ma è più facile che questo porti più che altro a rivalità a livello regionale".

La Cina è l'unico Paese che può prendere il testimone degli Usa come guida della globalizzazione?
"No, e lo vediamo ad esempio dal tentativo delle altre nazioni di andare avanti con il TPP.

Anche se è difficile escludere che la Cina sia la nuova superpotenza in grado di contendere agli Usa la leadership mondiale. La sua forza di gravità è forte e cresce anno dopo anno. Sta creando nuove istituzioni per difendere i propri interessi, come il Partenariato Economico Regionale Globale, la Banca asiatica di investimento  per le infrastrutture o l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai.  È sempre più aggressiva nel Mar cinese meridionale e attraverso la strategie Belt and Road sta proponendo uno scenario di vantaggi economici sotto una leadership cinese. Stiamo andando verso un mondo in cui si fronteggiano diverse versioni della globalizzazione".

Un po’ a sorpresa, Davos ha riservato un’accoglienza positiva a Trump. Le elite si sono giù riconciliate con il presidente Usa?
"La partecipazione di Trump a Davos è stata in parte pensata per dimostrare che la politica dell’”America First” non era in nessun modo incompatibile con un’economia globale integrata. Come ha spiegato lo stesso presidente 'America First non significa America alone' (sola ndr). Non vede l’ora di sottolineare che se corre l’economia Usa è un bene per il mondo intero. Ma questo approccio ha alcune criticità".
 
Ad esempio?
Prima di tutto vuole impostare relazioni bilaterali con i Paesi sul commercio e sulle dispute legate alla proprietà intellettuale, minando così le istituzioni che governano le regole del gioco internazionali. Se anche tutti gli altri si comportassero così, queste stesse regole sarebbero presto rimpiazzate dal caos. Inoltre l'economia Usa è molto più piccola di un tempo, pensare di legare il destino delle economia mondiali a quella degli Usa potrebbe semplicemente portare gli altri Stati a formare i propri accordi interazionali senza gli Stati Uniti.

Il presidente Usa di recente ha introdotto dazi su alcune categorie di prodotti. Come pensa che potrà rispondere l'Europa a questa accelerazione protezionistica?
"Le regole contano. Uno dei maggiori successi dell’equilibrio del secondo dopoguerra è stato un sistema di regole condivise che ha portato i Paesi a convivere in pace. Il protezionismo rischia troppo spesso di portare a ritorsioni, in un gioco che non è a somma zero. Il tema non sono tanto i dazi americani, ma piuttosto quanto le istituzioni della globalizzazione siano perennemente messe in discussione dai sentimenti nazionali. Tutti i Paesi possono finirne vittima, con il rischio di una corsa verso il basso sul piano economico".
 
Il presidente della Bce Draghi ha messo in guardia sulle turbolenze legate all’andamento delle valute. Siamo alla vigilia di una nuova guerra valutaria?
"Non credo che le guerre valutarie siano mai finite. In un mondo in cui gli stimoli monetari funzionano spesso attraverso i tassi di cambio, è abbastanza ovvio che le banche centrali abbiano cercato di ottenere un vantaggio. C’è di buono che al momento l’economia mondiale attraversa una fase di crescita diffusa e questo in teoria dovrebbe ridurre la necessità di ricorrere a svalutazioni competitive. La storia però in questo caso ci torna utile"
 
Perché?
"Tutte le volte in cui gli Stati Uniti hanno abbandonato la retorica del dollaro forte  sono sempre state associate a sconvolgimenti finanziari: la fine dei tassi di Bretton Woods nei primi anni ’70 e il crollo della Borsa nel 1987".

Lei sostiene che le istituzioni sovranazionali stiano perdendo forza. Ma in Germania, Francia e molto probabilmente anche in Italia, solo forze chiaramente pro europeiste sembrano in grado di formare un governo. Paesi che ricevono un mandato elettorale forte ma diametralmente opposto, come la Grecia, poi finiscono comunque per dovere sottostare a regole sovranazionali. Se la globalizzazione è in crisi, la democrazia è in una crisi  ancora più profonda?
"Non c’è dubbio che i Paesi europei dovrebbero sperare di non essere mai trattati come hanno trattato la Grecia. Ma questo ha a che fare con come storicamente la nazioni creditrici trattano quelle debitrici. Le difficoltà di oggi penso abbiano a che fare con il fatto che non tutti i Paesi negli ultimi anni hanno sperimentato un netto miglioramento delle proprie condizioni di vita. Stiamo assistendo a un sempre più frequente scaricabarile nazionalista in cui si cerca di dare la colpa delle proprie difficoltà interna e influenze esterne. Potrebbe sembrare un segno di democrazia, ma di fatto minaccia di mettere in discussione un forte consenso globalista costruito dopo la seconda guerra mondiale".
 
Lei è molto critico nei confronti dell’euro nel suo libro. E l’euro sta diventando sempre di più un carburante che alimenta i populismi. Come pensa che debba essere riformato per restituire fiducia nel progetto europeo?
"È un tema da maneggiare con cura, non vorrei passare per il solito euroscettico anglosassone. Molte unioni monetarie hanno successo perché i cittadini dei vari Paesi riconoscono in qualche modo che  sono politicamente ed economicamente dipendenti gli uni dagli altri".
 
Quindi cosa bisognerebbe fare?
"Primo, creare un ministero unico delle Finanze per l’Eurozona e un sistema fiscale federale. Secondo, creare un autorità di arbitrato per disciplinare le crisi legate alla bilancia dei pagamenti. Nel mio libro propongo di chiamarla Organizzazione Globale dei Flussi finanziari".

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