Se potessimo astrarre dalle conseguenze così drammatiche per le persone, il momento attuale avrebbe tratti affascinanti per la rapidità e la profondità dei cambiamenti, specie sul versante della riflessione e del dibattito culturale. Non passa giorno senza una presa d’atto della necessità di rivedere le interpretazioni dei fenomeni economici.
E, di riflesso, sociali e politici. A volte rimaniamo persino un po’ sorpresi, come quando leggiamo in un articolo firmato da Martin Wolf, capo-economista del Financial Times, che per superare la crisi del capitalismo è «inevitabile» garantire almeno un parziale «finanziamento pubblico dei partiti e delle elezioni».
Questa capacità di rimettere in discussione dogmi acquisiti e pregiudizi consolidati vale purtroppo più per altri Paesi che per il nostro, dove il dibattito pubblico, filtrato da un sistema editoriale e mediatico ingessato e asfittico, si caratterizza per la ripetitività. E per una lettura semplicistica dei processi in atto. Nel momento in cui la stampa economica e finanziaria internazionale si interroga sulla necessità di riformare il capitalismo, da noi a tenere banco sono i privilegi di questa o quella categoria di volta in volta individuata come «casta», o ripetitive analisi sull’articolo 18 quale freno allo sviluppo del paese.
Emblematico è il tema dei rapporti tra politica ed economia. Il mondo sembra finalmente emergere da una lunga fase in cui ha dominato l’idea che crescita e benessere potessero essere garantiti solo contenendo e limitando il ruolo della regolazione pubblica rispetto al mercato. Insistendo sui costi veri o presunti dell’azione redistributrice dello Stato, proclamando che non vi fosse alcuna funzione positiva per le politiche di stabilizzazione o le politiche industriali, vedendo l’azione politica come puramente orientata alla creazione di rendite, è stata sopravvalutata la capacità di autoregolazione del mercato e ci si è trovati in difetto di strumenti per affrontare la crisi.
Ciò che è in atto non è un ritorno semplicistico all’idea di una politica buona e portatrice di interessi pubblici da contrapporre a un mercato cattivo. Si rimette semmai a tema la questione della democrazia e si denunciano i meccanismi che hanno limitato la capacità della politica di rappresentare interessi diffusi. Negli Stati Uniti, dove certi processi sono stati più marcati, diversi studi documentano come, a partire dagli anni Ottanta, la politica abbia di fatto abdicato al proprio ruolo, diventando ostaggio di gruppi ristretti e accettando o addirittura favorendo l’aumento della diseguaglianza e lo sviluppo sregolato della finanza.
Nel dibattito nostrano, c’è chi continua invece a invocare improbabili separazioni della politica dall’economia, come se le decisioni politiche, anche quelle di astenersi dal fare, non avessero profonde implicazioni economiche. Quanto al tema della funzionalità della politica, non si può dire che esso sia stato assente dal dibattito. Ci si è tuttavia concentrati prevalentemente sull’aspetto della capacità «decidente», si è enfatizzato il momento concorrenziale del voto e delle sue regole, con il cittadino-elettore nel ruolo di un consumatore che sceglie tra i diversi “prodotti” offerti dal mercato politico. Si è così trascurata la funzione insostituibile dei partiti nel loro ruolo di organizzazione della rappresentanza, di mobilitazione del consenso e di creazione di una soggettività e capacità progettuale autonoma. Nella reazione alla «repubblica dei partiti» si è finito per dimenticare l’altra direzione del nesso tra economia e politica: l’autonomia della seconda dalla prima, o più precisamente il pericolo rappresentato dalle concentrazioni di potere economico per la democrazia indebolita dalla crisi dei partiti. Eppure, proprio l’esperienza italiana dovrebbe togliere ogni dubbio su tale capacità di condizionamento (e non ci riferiamo solo a Berlusconi).
In quest’ottica, non si può che condividere la preoccupazione di Martin Wolf. Parlando di come il capitalismo può uscire dalla sua crisi, l’editorialista del Financial Times punta il dito contro il rischio che la politica sia asservita agli interessi dei poteri economici, e diventi così «plutocrazia».
Gli strumenti suggeriti sono da una parte la limitazione delle risorse private nelle contese elettorali, dall’altro l’erogazione di risorse finanziarie pubbliche a favore di chi si impegna in politica: «La protezione della politica dal mercato si ottiene regolando l’uso del denaro nelle elezioni e fornendo risorse pubbliche a chi vi partecipa. Un finanziamento pubblico almeno parziale di partiti ed elezioni è inevitabile».
A pensarci, un’affermazione ovvia. Eppure, leggerla sull’organo della comunità finanziaria britannica fa un certo effetto. Sarà anche per il contrasto con la stampa liberale e progressista di casa nostra, che alterna il vagheggiamento di improbabili formule di democrazia senza partiti a lunghi editoriali in cui ci spiega come sia necessario fare piazza pulita di ogni corpo intermedio (in quanto portatore di interessi necessariamente corporativi).
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