sabato 8 novembre 2025

CRISI ECONOMICA, TEORIE ECONOMICHE, NEOLIBERISMO. BORTOLON M., Il solito liberismo a fronte del collasso, IL MANIFESTO, 7.11.2025

 «Non si è ancora percepito in pieno il senso di urgenza di questo momento. Non possiamo più perdere un minuto: l’Europa rischia di essere schiacciata tra Usa e Cina. Non si tratta solo di evitare la deindustrializzazione della Ue. La posta in gioco è più alta: è a rischio il nostro modello di società. In Europa, e anche in Italia». Difficile esprimere meglio le difficoltà italiane e del continente intero. Le parole, riportate dal Sole 24-Ore, sono di Stefano Pan, vicepresidente di Confindustria, e dovrebbero esprimere lo scenario che fa da sfondo all’incontro delle tre principali associazioni padronali europee: gli italiani, i francesi del Medef, i tedeschi del Bdi.


Meno entusiasmanti le soluzioni invocate: semplificazione, spallata alle residue barriere al commercio intra-Ue, puntare su decarbonizzazione e nuove tecnologie, puntare sulle “scienze della vita” senza ridurre la durata dei brevetti, difesa unica europea. È assai curioso che non compaiono i termini “energia” e “gas”. Eppure la stessa Bdi ad aprile 2022 era allarmata del fatto che «un’interruzione delle importazioni di gas russo scatenerebbe complessi effetti domino, interrompendo la produzione in molti settori»; uno studio per il governo federale del Consiglio degli Esperti Economici pronosticava una caduta fra il 3-6% del pil tedesco in tale eventualità.

Infatti la Germania è entrata in recessione nei due anni 2023-24, e sta trascinando con sé alcuni dei suoi partner, diffondendo il contagio della crisi. Varie analisi mostrano i paesi in cui questo è misurabile in modo netto: Austria, Slovenia, Slovacchia, Ungheria, Rep. Ceca. Due i canali di trasmissione: il calo della domanda tedesca che genera le importazioni in altri paesi, e le sue filiere estere che risentono del suo rallentamento produttivo. In merito al primo fattore, fra il 36-40% dell’export della Rep. Ceca è diretto in Germania, mentre la quota di Austria, Ungheria, Polonia è circa il 30%; per la Slovacchia la stima è del 27-28%, per la Slovenia circa il 17%.

Tutti paesi robustamente esportatori, la cui quota di export sul pil non solo supera il 50%, ma arriva fino al 94% (Slovenia 2022), e all’89% (Ungheria). Il secondo consiste nelle ricadute sui paesi in cui la Germania ha esternalizzato la sua produzione; a seconda della integrazione della struttura industriale del singolo paese nel manifatturiero tedesco possiamo indicare una flessione proporzionata alle difficoltà della casa madre. Da alcune analisi tale impatto è considerato minore di quello del mancato export verso Berlino.

Se prendiamo la media della crescita dei vari paesi nel periodo pre-guerra 2015-21 e li confrontiamo con la media annua del 2022-24, c’è un ribasso di alcuni punti pil da circa un punto (-0,98% Slovenia, -1% Austria) fino a -2,58% dell’Ungheria. Nel complesso se ne vanno -1,56% punti di crescita. Se però escludiamo il 2020 col 2021 (il rimbalzo), che è eccezionale non rappresenta il normale trend pre-guerra, la differenza balza oltre i due punti (-2,14%).

Certo è da presumere che non tutta la contrazione di tali paesi sia riconducibile alla crisi tedesca, ma è difficile pensare che non ne rappresenti un fattore chiave. Tornando alle proposte dei capitani d’industria, l’ultima riguarda una difesa comune, cioè lo sviluppo unitario del settore delle armi. A prescindere dal reale effetto di crescita di tale comparto, questa prospettiva è motivata dall’irrigidimento verso la Russia, cioè il tipo di politiche che ha privato il centro produttivo europeo del suo ossigeno: il gas che portava energia a basso costo.

Almeno nel paradigma di esportare ad ogni costo. Ma la via dei paesi export-led è stata intrapresa a scapito di un’altra, che vediamo in due altre grandezze: la quota salari e i consumi privati. In Germania la labour share (la % del pil espresso dai salari) è in quota discendente da anni: dal 61,1% (2014) al 57,3% (2023), e così la domanda privata.

L’ostinato rifiuto dell’oligarchia europea a non aumentare i salari ma a sostituire i consumi interni con l’export non solo ha creato una crescita debole e fragile, ma adesso che ne sono stati distrutti i presupposti si assiste all’inabissamento di tale modello e le rappresentanze padronali non hanno altre proposte che i soliti mantra liberisti.

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