domenica 26 giugno 2016

NUOVE SCHIAVITU'. ITALIA. G. TIZIAN, Così i rifugiati di Mineo diventano schiavi nei campi di arance, L'ESPRESSO, 23 giugno 2016

Fuggiti da guerre e dittature. Accolti in Italia da caporali e sfruttati come schiavi nei campi di arance rosse. Il frutto siciliano più pregiato, e venduto in tutto il mondo, raccolto dai migranti del Cara di Mineo: il grande “villaggio della solidarietà” voluto dalla coppia Maroni-Berlusconi e grande affare per cooperative bianche, rosse e S.p.a. del calibro di Pizzarotti. Già, perché il centro per richiedenti asilo altro non è che un insieme di villette all'americana destinate, un tempo, ai militari dell'Us Navy della vicina Sigonella. La proprietà è del colosso imprenditoriale di Parma, Pizzarotti, che riceve annualmente un lauto compenso.



Il villaggio della solidarietà è un complesso costruito nel nulla. In un deserto dell'entroterra siculo, tagliato in due da una lingua d'asfalto chiamata Catania-Gela. Strada tra le più pericolose d'Italia per numero di incidenti. Da una parte colline e rocce, dall'altra aranceti a perdita d'occhio. Nell'attesa di ricevere lo status di rifugiati molti migranti hanno iniziato a lavorare nelle campagne limitrofe. Una manna dal cielo per quegli imprenditori che cercano di limare il più possibile sui costi di produzione. Alle storie dei nuovi schiavi delle arance è dedicato un intero capitolo del secondo rapporto “Filiera Sporca”.

Grafico Produttori
I dati relativi al 2011-2012 indicano che in Sicilia ci sono 5692 produttori e 45 OP con una media di 126 produttori per OP. Per avere un termine di paragone basti pensare che in Emilia Romagna ci sono 25 OP per 26.790 produttori e in Trentino Alt Adige ci sono 7 OP per 26.741 produttori. Anche un report della Commissione europea pubblicato nel 2014 sottolinea che “in Italia il tasso di organizzazione dei produttori relativamente elevato a livello nazionale (circa 47%) risulta dalla media tra l’elevato tasso di organizzazione in alcune regioni settentrionali e la scarsa organizzazione in numerose altre regioni”




Una vera e propria inchiesta sul campo. Oltre che una campagna di sensibilizzazione che pone questioni politiche irrisolte. La repressione del caporalto non è sufficiente. Alla base dello sfruttamento in condizioni disumane in cui costretti a lavorare i richiedenti asilo c'è il fallimento di un sistema industriale, che avvantaggia pochi e affama molti. Il progetto di ricerca è il frutto di una joint venture tra diverse associazioni: daSud, Terra!, Terrelibere.org, con il patrocinio di Open Society Foundation.

I giornalisti che hanno curato la seconda edizione di “Filiera sporca” analizzano i diversi passaggi della produzione: dalla concimazione alla grande distribuzione. E nel mezzo la descrizione delle singole storture che inquinano il settore e le deviazioni che portano, poi, all'impoverimento dell'intero mercato.

Chi vive sulla propria pelle tutte le contraddizioni del neoliberismo applicato all'agricoltura sono loro, i migranti, gli anelli più deboli e indifesi della catena. Marcus, per esempio, è scappato dal regime del Gambia. Come tanti suoi coetanei e connazionali sognava l'Europa. Il continente dei diritti, delle opportunità, del lavoro senza ricatti. Eppure prima in Libia, poi in Italia, ha trovato esattamente il contrario: schiavitù e ricatti. È uno dei tanti rifugiati che invece di essere protetto raccoglie arance destinate alla trasformazione (diventeranno i succhi che compriamo nelle nostre città) per pochi euro al giorno.


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«O così, Marcus, oppure ne troviamo a centinaia», gli ha detto il padrone siciliano. E Marcus che non è libero di poter scegliere ha accettato di essere sfruttato. È arrivato a Lampedusa dopo un giorno di mare con il gommone. Dopo avergli preso le impronte lo hanno traferito nel “villaggio della solidarietà” di Mineo. In quel nulla di cemento sul quale persino mafia Capitale ha fatto affari. Qui, per lui, inizia una lunga attesa.

ll costo delle arance


Il Gambia è riconosciuto come un paese sotto dittatura. Arrivano migliaia di gambiani da anni. Ma ogni volta si inizia da zero. Una lunga procedura burocratica in attesa di incontrare la commissione che deve valutare le richieste degli aspiranti rifugiati. A volte danno un pocket money da 2,5 euro al giorno, a volte sigarette e una carta telefonica. «Ma io non fumo. Mi servono soldi da mandare ai miei genitori malati» dice Marcus. Tutti i migranti del Cara hanno presentato richiesta d’asilo. Chi la ottiene avrà i documenti. Gli altri dovrebbero essere espulsi. Negli ultimi anni, per avere una risposta passavano anche 24 mesi. Altrettanti per il ricorso in caso di diniego. Non è stata predisposta una commissione all’interno, la più vicina è a Siracusa. Così, rispettare i termini di legge è impossibile.

Che fare durante tutto questo tempo? La direttiva europea prevede che dopo sei mesi un richiedente asilo abbia un permesso temporaneo. In questo modo può lavorare regolarmente. Eppure, in passato, spesso non veniva consegnato. Per ottenerlo bisognava fare ricorso, come hanno denunciato gli avvocati Asgi. «Dunque si può scegliere tra limbo e schiavitù.  Basta un rapido giro per incontrare estensioni senza fine. di piccoli proprietari e grandi latifondi. Tutti hanno bisogno di braccia. I padroni senza scrupoli scelgono quelle a basso costo» scrivono gli autori del rapporto. «Ho comprato una bicicletta qui dentro per 25 euro. Ogni giorno, aspettiamo le 8. È l’orario di apertura, prima non si può. Stiamo dietro i cancelli, come in gabbia. Poi le porte si aprono e cerchiamo qualcuno per la giornata», Marcus è diventato una merce a basso costo. Un bracciante senza diritti. Le condizioni di lavoro sono durissime.

«Ma non è questa la cosa più grave. Dove vanno a finire le arance raccolte dai rifugiati? Fanno parte di un circuito illegale parallelo? Oppure confluiscono nel normale flusso che porta al succo delle multinazionali?». Un salto nel buio del passato della Sicilia, terra di rivolte, di sindacalisti uccisi da cosa nostra per aver difeso i contadini dall'arroganza dei latifondisti.

«Accanto al Cara di Mineo non ci sono soltanto i campi di arance. Ci sono i magazzini di conferimento, dove i produttori portano le arance. E ci sono le industrie di trasformazione. Che vendono ai maggiori marchi, dai supermercati alle multinazionali del succo. Tra le arance che finiscono nel normale circuito distribuitivo possono esserci anche quelle raccolte dai richiedenti asilo del Cara?» si chiedono in i giornalisti del dossier.

La trasparenza delle aziende
Chi ha risposto e chi no alle domande degli autori del dossier. Molte aziende della Gdo, come si evince dai grafici, hanno evitato il confronto


A questo interrogativo gli autori cercano di rispondere coinvolgendo i diretti interessati: «Diciamo che può essere una realtà» spiega il presidente di una cooperativa che si trova nei pressi di Mineo. «Noi siamo un punto di incontro per i produttori ma se qualcuno di loro mette al lavoro persone provenienti dal Cara non è nelle mie competenze verificarlo. Quello che posso fare io è sensibilizzare i produttori a una cultura del lavoro differente». «La ricerca sul campo, e il tentativo di risalire la filiera che dal Cara di Mineo porta alla produzione di succhi, non vuole puntare il dito contro nessuna azienda. Quella che emerge però è la fotografia di una filiera estremamente frammentata in cui nessuno può essere certo delle condizioni di lavoro in cui la raccolta delle arance avviene».

La soluzione? «Un’etichetta trasparente per eliminare ogni dubbio sull'eticità di ciò che stiamo bevendo». Per capire fino in fondo se l'aranciata nel nostro frigorifero è stata prodotta da braccia che fuggono da guerre. Trasformate da imprenditori europei in schiavi senza futuro.

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