venerdì 15 maggio 2015

NUOVI CONTRATTI DI LAVORO A ZERO ORE. C. ALBANESE, I contratti “zero-hours” conquistano Londra, CORRIERE DELLA SERA, 15 maggio 2015

Un contratto di lavoro a tutti gli effetti, ma flessibile al punto da non garantire neanche un minimo di ore lavorative a settimana. Solo che, in caso di necessità, sarà chi ha firmato il contratto a essere chiamato.


Ecco, in sintesi, gli “zero hours contracts”, rapporti di lavoro inizialmente nati per studenti e giovani lavoratori, ma che in Regno Unito hanno raggiunto  una diffusione tale da regolare essere utilizzanti in circa il 3.5% dei contratti di lavoro.
Sono circa un milione le persone che hanno firmato questo tipo di contratto oltremanica, spiega Elisabetta Cassaneti, partner dello studio legale LabLaw.
Una diffusione tale, spiega Cassaneti, che questo contratto viene utlizzato anche da Buckingham Palace. “Mc Donald’s UK impiega il 90% del personale con zero hours e i famosi negozi Sport Direct hanno 20.000 dipendenti a zero hours su 23.000,” spiega l’avvocato.
Eppure, per il momento il successo di questo tipo di rapporto lavorativo resta quasi esclusivamente inglese, e in particolare nei settori dei servizi e della grande distribuzione.
Il meccanismo è semplice. “Il lavoratore attende che il datore di lavoro lo chiami e una volta ricevuta la chiamata, spesso con un brevissimo preavviso, è tenuto a presentarsi a lavoro” spiega Cassaneti.
Il periodo di lavoro di solito è variabile, da pochi giorni a qualche settimana, ai quali vengono alternati da periodi di inattività.  Le aziende hanno anche diritto a inserire una clausola di esclusività che limita la possibilità di lavorare con altre aziende.
Per i datori di lavoro, i vantaggi sono diversi, spiega LabLaw: “La massima flessibilità, la possibilità di coprire agevolmente gli eventuali improvvisi picchi di lavoro, e il risparmio sui periodi in cui non si lavora”. Inoltre questi contratti non prevedono una copertura in caso né di malattia né di ferie.
L’altro capo del filo è tenuto dai lavoratori, lasciati in un ruolo di precarietà. Secondo una indagine effettuata da un istituto di ricerca britannico infatti solo il 14% delle persone impiegate con questo tipo di contratto ha dichiarato di voler lavorare di più.
E’ anche questo uno dei motivi per cui questi contratti restano una quasi esclusiva inglese, trovando particolare applicazione nei periodi della crisi. Sono questi contratti parte della ragione per cui in Inghilterra il tasso di disoccupazione, anche nei periodi più bui, si è mantenuto a livelli accettabili.
In Italia la storia è ben diversa, e la loro diffusione, spiega Cassaneti, passa da “un vero e proprio comportamento culturale”. Una piccola rivoluzione che per il momento non sembra essere all’orizzonte.

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