domenica 30 novembre 2014

ITALIA. JOBS ACT E RIFORMA DEL TERZO SETTORE. ARTICOLI DA IL VELINO, 29 novembre 2014

Riforma Terzo Settore, il Civil Act di Renzi

Riccardo bonacina, 29 novembre 2014 – il velino
In questi anni il Terzo settore è stato umiliato, usato spesso, costringendolo a schemi che gli sono estranei, in un quadro sussidiario al contrario “fate voi che io non ce la faccio e a poco prezzo grazie” che ha rischiato si snaturarne e corrompere la stessa anima. Bisognava finirla con questa stagione delle medaglie e dello sfruttamento, per liberare le energie sociali e civiche che fanno grande e unico questo Paese. Matteo Renzi ha avuto sempre chiaro che occorreva #cambiareverso. “Lo chiamano Terzo Settore ma in effetti è il primo”, così era scritto nel suo programma alle primarie, concetto che ribadì all’uscita dalla stanza del presidente Napolitano dopo aver definito la lista dei ministri, e ancora nella conferenza stampa dopo il primo Consiglio dei ministri annunciando il fondo per l’impresa sociale: "Basta dire come sono bravini questi del Terzo Settore, no, noi sul Terzo Settore vogliamo investire". Sembrava un facile slogan qualche mese fa, invece a oltre 200 giorni dal suo insediamento come promesso a Lucca al Festival del Volontariato (“Oggi è il 12 aprile fra un mese esatto presenterà le linee guida della Riforma del settore” aveva detto nell’incontro), l’annunciata riforma del Terzo settore arriva allo scoccare della mezzanotte del 12 maggio con un tweet.


Qualcuno ha parlato, a me sembra giustamente, di un vero e proprio Civil act, perché in effetti il testo fa capire come Renzi stia ridisegnando il campo da gioco della politica: dal Palazzo al rapporto con la società. La società viene prima, la sua coesione viene prima, il benessere dei cittadini viene prima della politica che è uno strumento per la crescita della società, e non per la crescita delle banche o delle autostrade o dei partiti. Usciamo da anni in cui alla società (e quindi al cosiddetto Terzo Settore che è poi la società che si organizza), si guardava, ma dopo. Quando la crescita lo avrebbe permesso, quando l’Europa lo avrebbe permesso, dopo aver fatto le infrastrutture materiali, una volta messo a posto il debito. La società, da troppi anni, veniva dopo. 
“Noi vogliamo ribaltare la logica delle ultime stagioni”, aveva detto Matteo Renzi, “noi pensiamo che la capacità di risposta dei cittadini ai cittadini, il loro impegno civico, sia la risorsa prima del Paese (Primo settore non più Terzo), pensiamo che la capacità dei cittadini di partecipare alle sfide del quotidiano in un vero spirito sussidiario e di solidarietà sia la prima infrastruttura necessaria al Paese. Per aumentarne il capitale sociale e il grado di coesione delle comunità. Questa sfida è la nostra sfida perché voi siete un pezzo della scommessa culturale educative ed economica del Paese”.
Le linee guide proposte vanno nella direzione giusta. Eccole:
Ricostruire le fondamenta giuridiche, definire i confini e separare il grano dal loglio.
Riforma del Codice civile datato 1942 per superare le vecchie dicotomie tra pubblico/privato e Stato/mercato e passare da un ordine civile bipolare a un assetto “tripolare”, dobbiamo definire in modo compiuto e riconoscere i soggetti privati sotto il profilo della veste giuridica, ma pubblici per le finalità di utilità e promozione sociale che perseguono. Abbiamo inoltre bisogno di delimitare in modo più chiaro l’identità, non solo giuridica, del terzo settore, specificando meglio i confini tra volontariato e cooperazione sociale, tra associazionismo di promozione sociale e impesa sociale, meglio inquadrando la miriade di soggetti assai diversi fra loro che nel loro insieme rappresentano il prodotto della libera iniziativa dei cittadini associati per perseguire il bene comune. Occorre però anche sgomberare il campo da una visione idilliaca del mondo del privato sociale, non ignorando che anche in questo ambito agiscono soggetti non sempre trasparenti che talvolta usufruiscono di benefici o attuano forme di concorrenza utilizzando spregiudicatamente la forma associativa per aggirare obblighi di legge.
Valorizzare il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale.
L’azione diretta dei pubblici poteri e la proliferazione di enti e organismi pubblici operanti nel sociale si è rivelata spesso costosa e inefficiente. Nel sistema di governo multilivello che caratterizza il nostro paese l’autonoma iniziativa dei cittadini per realizzare concretamente la tutela dei diritti civili e sociali garantita dalla Costituzione deve essere quanto più possibile valorizzata. In un quadro di vincoli di bilancio, dinanzi alle crescenti domande di protezione sociale abbiamo bisogno di adottare nuovi modelli di assistenza in cui l’azione pubblica possa essere affiancata in modo più incisivo dai soggetti operanti nel privato solidale. Pubblica amministrazione e Terzo settore devono essere le due gambe su cui fondare una nuova welfare society.
Far decollare davvero l’impresa sociale, per arricchire il panorama delle istituzioni economiche e sociali del nostro paese dimostrando che capitalismo e solidarietà possono abbracciarsi in modo nuovo attraverso l’affermazione di uno spazio imprenditoriale non residuale per le organizzazioni private che, senza scopo di lucro, producono e scambiano in via continuativa beni e servizi per realizzare obiettivi di interesse generale.
Assicurare una leva di giovani con un Servizio Civile Nazionale universale, come opportunità di servizio alla comunità e primo 3 approccio all’inserimento professionale, aperto ai giovani dai 18 ai 29 anni che desiderino confrontarsi con l’impegno civile, per la formazione di una coscienza pubblica e civica.
Per far questo Renzi, dopo tanti anni, mette sul piatto molte risorse, oltre 1,5 miliardi per un 5 per mille finalmente stabile e finanziato, per un Servizio civile che non lasci a casa nessun ragazzo che chiede di potersi impegnare, per dare gambe, finalmente, all’impresa sociale nel nostro Paese. E semplificando un grado normativo ingarbugliato e contradditorio (14 leggi di settore e 4 normative fiscali) con la proposta di una legge Quadro. Ora discutiamone e approfondiamo e poi la Legge.


Riforma Terzo Settore, è un’occasione per uscire dalle nicchie

Paolo venturi - ivi


Avanzare, “alzare l’asticella” postula sempre una fatica, un cambiamento che nel Terzo settore non può che partire dal recuperare una nuova visione. L’incapacità ad innovare, infatti, spesso deriva dall’incapacità di assumere una diversa prospettiva dei problemi. Una prospettiva nuova non significa “nuovista”, bensì “originale” cioè fedele all’origine. In questo senso riflettere sul valore sociale del non profit, in un periodo di cambiamenti strutturali sul fronte della domanda e dell’offerta, equivale proprio a recuperare quella visione “olistica” del valore, quella che ha dato origine alle prime forme di finanza, agli ospedali, alle scuole, alle università. Significa, in altre parole, recuperare una visione capace di superare quell’idea ridotta di sociale, che nel corso degli anni si è insinuata tanto nelle istituzioni quanto nell’economia. La causa principale di questa “riduzione” del concetto di valore, sta nell’aver escluso il “not for profit” dal paradigma dello sviluppo affidandogli un posto additivo se non quando emergenziale. Slegare il non profit dal tema dello sviluppo ha alimentato e diffuso l’irragionevole credenza che l’unica forma di valore sia quello dell’impresa profittevole (for profit), cioè quella che genera profitto, recidendo così il nesso fra valore sociale e valore economico. In tal modo, nel tempo si è andata consolidando l’ideologia secondo cui il valore sociale non sia profittevole.
Sappiamo tutti che questa è una gigantesca falsità. Non solo perché, storicamente, il non profit è nel dna di molte istituzioni economiche e sociali, ma perché la ricerca e l’esperienza quotidiana oggi ci restituiscono l’evidenza quantitativa di un valore economico straordinario. L’obiezione di molti è che “è misurabile ciò che è tangibile” e il non profit proprio perché “intangibile” non può essere “pesato”. Anche questa è una falsità: siamo infatti in grado di mettere a bilancio il valore di un brand, l’avviamento di un’impresa, la sua reputazione e il suo specifico know how, ma non siamo “ancora” in condizione di misurare il Valore aggiunto prodotto dal non profit, cioè da quella “piccola porzione” di più di 300mila organizzazioni che occupa 1 milione di addetti e quasi 5 milioni di volontari…
La prima innovazione risiede perciò nel prendere consapevolezza del cambiamento delle modalità di produzione di valore. Il valore sociale non è un’esternalità (un effetto) ma rappresenta un input (meccanismo generativo), sia per la competitività dell’impresa (basti pensare alla Shared Value Theory) sia del nuovo agire della Pubblica amministrazione (esempio, l’Open Government, la Co-produzione, le pratiche di Amministrazione Condivisa).
La sola presenza del non profit nei territori costituisce una proxy dello sviluppo. Basti pensare al suo contributo al Pil, che nel 2011 era pari al 3,4 per cento (fonte: Istat), piuttosto che al ruolo che gioca in termini di coesione sociale: ad esempio, leggendo il dato sull’impiego di risorse umane del non profit e la ricchezza prodotta annualmente dal territorio ne emerge una forte correlazione positiva (indice di Bravais-Pearson pari a 0,87; fonte: Unioncamere, 2014). Per non parlare del contributo in termini di legalità dei territori: la presenza del non profit e il tasso di criminalità dei territori sono, in questo caso, inversamente correlati (fonte: Unioncamere, 2014) con conseguenze positive in termini sia di sviluppo umano sia di competitività delle imprese e, più in generale, dei territori. Rinunciare a dare un’espressività economica al sociale nella sua valenza donativa, di advocacy, erogativa e produttiva, significa togliere un pezzo di valore alla collettività, e questo non possiamo permettercelo. Abbiamo misurato la felicità (Gross national happiness), la fiducia (capitale sociale), la capacitazione (capability), il benessere (Bes): ora è il momento di misurare ossia di dare peso e valore economico al sociale generato dal non profit.
Ma il Terzo settore è pronto a convergere verso questo comune obiettivo? L’esito di questo percorso non dipenderà dalla capacità dell’accademia di fornire indicatori adeguati (forse ce ne sono già fin troppi) ma dalla convinzione del non profit di co-produrli, riconoscerli e farli propri. Ne ha estremo bisogno tanto lo sviluppo quanto la lotta alle diseguaglianze come ci ricorda Stiglitz: "Un tempo credevamo che ci fosse un trade-off e che avremmo potuto ridurre le disuguaglianze solo rinunciando a efficienza e crescita, oggi sappiamo che c’è un doppio dividendo: più uguaglianza significa anche più crescita".



Riforma Terzo settore, finalmente il “che cosa fai”, conterà più del “chi sei”

Roberto randazzo - ivi


Il processo di riforma avviato nell’ambito del terzo settore, sembrerebbe guardare anche al - tanto discusso - tema della misurazione dell’impatto. Il dibattito comincia a lasciare spazio a riflessioni più concrete che mirano a definire metriche e sistemi di misurazione dell’impatto (sociale) generato dei soggetti che realizzano attività di interesse collettivo. Questa prospettiva è ormai diffusa in ambito internazionale, e il continuum tra impresa e filantropia si ritiene che passi anche attraverso forme imprenditoriali profit che abbiano una missione volta al conseguimento di un impatto sociale “misurabile”. Ovviamente, il tema cardine è rappresentato dalla necessità di trovare (o di creare) metriche e sistemi di valutazione condivisi che siano in grado di rappresentare in maniera efficace e trasparente gli obiettivi raggiunti dalle imprese, trovando una sintesi tra le varie sfaccettature che determineranno l’effettiva misurazione dell’impatto.
La sfida è sicuramente ardua in quanto numerosi sono le variabili in gioco e i fattori di cui occorrerebbe tener conto. La rilevanza di questa valutazione è fondamentale poiché consentirebbe di superare il dibattito barocco che da sempre caratterizza il nostro sistema e che permetterebbe di immaginare nuovi modelli imprenditoriali, in grado di porre in essere attività di interesse collettivo, fuori da un perimetro prettamente non profit. Aspetto altrove definitivamente metabolizzato o, in alcune giurisdizioni, mai considerato come ostacolo ad attività imprenditoriali for profit in ambito sociale. Si tratta di una esigenza ormai manifestata da più parti, in quanto una misurazione reale delle performance dell’impresa, permetterebbe di superare una valutazione basata fino ad oggi solo ed esclusivamente sulla forma giuridica, passando dal “chi sei” al “che cosa fai”.
Questa tendenza sembra essere stata recepita nel disegno di legge delega sulla riforma del Terzo Settore se è vero che per la prima volta si parla dell’impresa sociale come di un soggetto "avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi misurabili, realizzati mediante la produzione o lo scambio di beni o servizi di utilità sociale". Di certo si tratta di uno strumento che potrebbe essere molto apprezzato sia dal mondo della finanza ad impatto - che da sempre va a caccia di sistemi che possano misurare l’efficacia degli investimenti - sia da parte della pubblica amministrazione che avrebbe finalmente dati certi per valutare il valore che le imprese sociali generano a beneficio della collettività. La misurazione dell’“outcome”, collegato alla diffusione di strumenti di impact investing, potrebbe rappresentare una svolta nell’ambito dell’economia sociale, speriamo solo che - per quanto al momento priva di contorni ben definiti - questa proposta non rimanga nel limbo delle buone intenzioni.

Riforma Terzo settore, anche il nonprofit ha il suo articolo 18

Flaviano zandonai - ivi
L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori nelle ultime settimane è tornato sotto i riflettori del dibattito politico, monopolizzandolo da par suo. Non per il contenuto – si tratta infatti di una questione marginale rispetto alla riforma del lavoro – ma per il suo significato simbolico ed evocativo. L’articolo 18 è una bandiera strumentalmente utilizzata per identificare le opposte fazioni. E spesso anche una clava per regolare i conti più che per un’autentica dialettica sui contenuti. A seconda della posizione consente infatti di tacciare i conservatori – quelli che vogliono mantenere lo status quo – e gli smantellatori delle garanzie residue nel mercato del lavoro.
C’è una questione “articolo 18″ anche per il nonprofit? Un dispositivo normativo che assurge a emblema di un confronto che è anche e soprattutto ideologico? La risposta è si ed è anche facile da individuare: si tratta dell’articolo 4 del decreto che illustra le linee guida di riforma del terzo settore. L’articolo in questione riguarda l’impresa sociale, in particolare la sua definizione. Nel testo infatti si qualifica questo modello come “impresa privata a finalità di interesse generale avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi e misurabili“. Eccolo qui l’oggetto del contendere: il fatto che sia giusto e possibile misurare in modo oggettivo il valore sociale prodotto non solo per beneficiari diretti e indiretti, ma guardando anche a effetti sistemici sulle politiche e sui sistemi di regolazione.
È facile farsi prendere la mano e leggere questa disposizione come un confronto / scontro tra conservatori e innovatori. O, in modo più raffinato, tra chi punta l’attenzione sugli esiti dell’azione imprenditoriale in termini di benefici sociali vs coloro che invece preferiscono guardare alle forme giuridico organizzative che ex ante possono garantire un impatto sociale positivo. Ma in ogni caso la rappresentazione è sbagliata. In primo luogo perché, come ricordava Elena Casolari al recente Workshop sull’impresa sociale, la normativa italiana è certamente orientata al cambiamento e in particolare ad arricchire l’ecosistema dell’impresa sociale. Ma è chiamata anche a conservare esperienze come la cooperazione sociale che si dimostrano ancora proattive nel cercare soluzioni nuove rispetto a modelli di servizio e di business che risentono del cambiamento epocale in atto. In secondo luogo la deriva da articolo 18 è sbagliata perché, come dimostrano recenti indagini come quella recentemente presentata da Sodalitas – sul fronte dell’impatto sociale siamo tutt’altro che all’anno zero, nel senso che esistono culture e pratiche di misurazione molto sofisticate, precise ed anche sostenibili in termini di costi. In sintesi: esistono tutte le condizioni per un autentico “dialogo sociale”. Basta volerlo.


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