giovedì 3 ottobre 2013

CAPITALISMO ITALIA. TEORIE ECONOMICHE. ENRICO GRAZZINI, Capitalismo anno zero, IL MANIFESTO, 26 settembre 2013

Telecom, Alitalia, Finmeccanica-Ansaldo, Ilva. Ma anche i casi Fondiaria-Sai, Mps, Fiat-Chrysler e molti altri dimostrano in maniera lampante la fase finale del processo di smantellamento del capitalismo italiano.
Un capitalismo che di fronte alla globalizzazione finanziaria sta letteralmente fallendo.


Mentre Letta è in giro per il mondo a implorare investimenti esteri per l'Italia, le maggiori imprese italiane chiudono. A proposito, si dice che anche Pirelli verrà ceduta. L'intervento pubblico della Cassa Depositi e Prestiti e l'iniziativa dei lavoratori costituiscono allora forse l'unica possibilità di resistere al fallimento.
La Cdp e la partecipazione dei lavoratori al governo dell'impresa possono diventare gli unici fattori di riscossa per salvare il sistema industriale italiano, quello che a suo tempo aveva fatto entrare l'Italia nel G7.
L'Italia ha ancora un futuro come paese industriale avanzato? Bisognerebbe innanzitutto «licenziare i padroni», come suggeriva nel suo saggio Massimo Mucchetti (attuale presidente pd della Commissione Industria, Commercio, Turismo). Già nel 2003 Mucchetti dimostrava, conti alla mano, che il capitale pubblico nel suo periodo d'oro aveva «creato valore» per l'economia nazionale mentre gli azionisti privati stavano «distruggendo valore» (azionario) delle loro società per magari arricchirsi sul piano personale. I casi Fonsai (Ligresti) e Telecom Italia, pur nella loro diversità, sono esemplari. Ma anche Fiat se ne sta andando in America e Mediobanca, crocevia del capitalismo italiano, sta smantellando le partecipazioni incrociate che hanno sostenuto fino ad oggi il sistema malato del «capitalismo privato di relazione».
La storia di questo fallimento è lunga e complessa ed ha a che fare con lo smantellamento dell'Iri, del suo fallimento legato alla lottizzazione partitica, alla corruzione dilagante e all'ingresso dell'Italia nell'euro, alla necessità di fare cassa svendendo ai privati le migliori aziende pubbliche (come Telecom Italia) per rientrare nei parametri di Maastricht.
Tuttavia le privatizzazioni sono fallite, la corruzione privata non è stata minore di quella pubblica e i capitalisti italiani si sono dimostrati più propensi a sfruttare le aziende ex pubbliche per ottenere rendite e vantaggi finanziari che a innovare e competere sui mercati.
Ma la storia la faranno gli storici. Ora occorre capire se e come è possibile uscire da questa situazione rovinosa. Per alcune aziende è probabilmente troppo tardi: è impossibile salvarsi dalla (s)vendita agli operatori esteri. Per altre occorre tentare di rilanciarle e di mantenere il controllo sulle tecnologie avanzate. L'unico soggetto che potrebbe intervenire per sborsare gli ingenti capitali indispensabili per il rilancio industriale è la Cassa Depositi e Prestiti, la società privata controllata però dal Tesoro italiano e dalle Fondazioni bancarie.
La Cdp ha infatti finalità pubbliche e disponibilità finanziaria per decine di miliardi. Il governo e il Parlamento italiano dovrebbero dare alla Cdp il mandato preciso di intervenire - direttamente o indirettamente - per acquisire il controllo delle aziende industriali e di servizio avanzate.
Purtroppo però il governo Letta-Alfano si limita a fare il ragioniere: punta solo a rientrare dal deficit pubblico nel tentativo di rispettare i parametri di Maastricht, e quindi strozza l'economia in un periodo in cui bisognerebbe investire. In nome di una vetusta e disastrosa ideologia liberista non vuole fare politica industriale e abbandona le aziende che sono i pilastri dell'economia italiana. Eppure non è vero che, come dice il dogma liberista, tutte le aziende pubbliche sono e devono essere sempre fallimentari: in Italia per esempio Eni ed Enel possono avere un ruolo positivo.
Il Parlamento dovrebbe allora obbligare il governo a ripubblicizzare i beni comuni nazionali, come la rete pubblica di telecomunicazioni, in modo che il paese ritorni ad avere un futuro. Ma la statalizzazione non basta. Non si devono ridare le aziende in mano alle consorterie statali e alle clientele politiche. Per evitare la corruzione partitica che ha rovinato l'Iri, si potrebbe adottare il modello tedesco di governo delle imprese da ripubblicizzare. I lavoratori, come accade in Germania, devono potere eleggere direttamente non solo il consiglio sindacale ma anche i loro rappresentanti nel cda delle imprese: i lavoratori devono potere influire sulle strategie e sulla gestione aziendale perché sono loro i principali interessati allo sviluppo delle imprese pubbliche.
La partecipazione dei lavoratori nel Cda delle aziende è la migliore garanzia che le imprese non verranno svendute al capitale estero e alla speculazione; inoltre, come dimostra il successo dell'economia tedesca, la partecipazione dei lavoratori è indispensabile per competere efficacemente nell'economia della conoscenza. Tutte le maggiori imprese tedesche hanno nel consiglio di amministrazione metà dei consiglieri eletti dai lavoratori; e molte aziende di successo, come la Volkswagen, vedono anche la partecipazione del capitale pubblico.
Il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia. Purtroppo il modello tedesco di co-determinazione nel governo delle imprese è ancora sottovalutato o ignorato (o disprezzato) dalla sinistra politica e sindacale italiana (e avversato ovviamente dalla destra e dalla Confindustria). Qualcosa sta però finalmente cambiando: Susanna Camusso, segretario della Cgil, sul Corriere della Sera suggerisce per la prima volta di applicare l'articolo 46 della Costituzione: «La Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende». Solo l'intervento del capitale pubblico e la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese possono salvare le grandi aziende italiane dal disastro, dalla svendita, dal fallimento.

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