Basta leggere quella parola, “patrimoniale”, perché un brivido corra lungo la schiena dei più. Basta pronunciare l’aurea formula “lotta all’evasione fiscale” perché il panico assalga schiere di tartassati, eserciti di furbetti, truppe di elusori ed evasori. I due argomenti sono talmente sensibili che da decenni il solo risuonare dell’uno sovrasta l’altro, al punto che si finisce per non parlare più né di questo né di quello. Come se ci fosse una sorta di tacito patto fiscale. Che potrebbe essere messo in discussione. Ma andiamo per ordine.
Qualche giorno fa Wolfgang Schäuble, oggi presidente del Bundestag, ieri arcigno ministro delle Finanze tedesco, ha lanciato dal Financial Times un fermo appello alla «normalità fiscale» contro la «pandemia del debito», slogan che - tradotto dal suo tedesco - vuol dire più o meno ripristino dei parametri di Maastricht congelati causa Covid-19; stop ai soldi del “quantitative easing”; aumento dei tassi. Insomma, una nuova austerità, proprio adesso che l’Ue, preparati e approvati i piani di investimento, cerca di riprendere a correre dopo due anni di stallo da pandemia.
Ora, è vero che a settembre si vota per il dopo Merkel, e dunque perfino nella fredda Germania i toni si scaldano; ma non è un caso che ciò avvenga dopo che l’Ue ha trovato la forza di promuovere la più massiccia iniezione di denaro pubblico (leggi: debito comune), che si sia mai vista, tale da zittire anche il più ostinato dei sovranisti; che in questa operazione Mario Draghi abbia giocato un certo ruolo, prima dalla Bce, poi da Palazzo Chigi; e che perfino il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, per definizione e per mestiere guardiano dei conti, della spesa pubblica e del rigore monetario, abbia suggerito, sulla scia del premier, che lo stimolo monetario della Bce continui anche dopo la pandemia. Facile dunque dedurne che il messaggio di Schäuble non sia indirizzato solo a Bruxelles, ma anche e soprattutto a Roma.
Certo, in Germania non tutti la pensano come Wolfgang il Falco, se non altro perché suona paradossale che il più grande denigratore dell’unione moneteria risfoderi la sciabola proprio contro l’uomo che l’ha salvata, ma il fatto è che il ritorno di polemica contro il proverbiale «lassismo italiano» si fonda su un dato incontrovertibile: il rapporto debito-Pil ha raggiunto quota 160 (2615 miliardi, ancora senza il peso del Pnrr), mentre in Germania è intorno a un virtuoso 70. Ed è con questo fardello pesantissimo che Roma si presenterà al dopo Covid-19, cioè al momento in cui sarà giocoforza ricominciare a parlare di numeri, parametri, tassi: sarà battaglia sui tempi e sui modi del rientro dal debito, del «ritorno alla normalità», certo non quella di Schäuble…, e da soli certo non sarà facile combatterla.
Sarà dunque necessario trovare alleati solidi quanto gli inevitabili nemici, ma nel frattempo dovremo adeguarci anche a fare i compiti a casa. Che ancora una volta riguardano il debito, e i due strumenti principali per arginarlo: crescita e fisco. Per l’una, conosciamo la strada: progetti seri del Pnrr, e prima di tutto - Draghi lo ha ripetuto anche dinanzi a Ursula Von der Leyen - impegno che questi soldi siano spesi presto e bene. Più crescita, meno debito. In quanto alla prima, le previsioni sono più che buone, molto oltre le aspettative. E vabbè. Sul fisco invece, ahi ahi ahi. Anche perché le ipotesi di patrimoniale di cui si è ricominciato a vociferare, destinata a colpire non solo le grandi ricchezze (tra le tante proposte: imposte più alte sia di successione che sugli utili finanziari, ma anche ritorno della tassazione sulla prima casa e adeguamento delle rendite catastali), non avrebbe alcun senso e nessuna equità senza una contemporanea, vera lotta all’evasione fiscale, senza la quale quel “patto” di cui si diceva non si spezzerà mai.
Questione delicatissima, non a caso eternamente elusa o dimenticata. Il fatto è che i patrimoni superiori - che so? - a due milioni di euro rappresentano più o meno l’1 per cento della platea fiscale, e che in caso di tassazione più alta questi capitali potrebbero cercare riparo in paesi più ospitali e convenienti (nella stessa Europa dove in tanti ci chiedono di fare qualcosa!); e che comunque non basterebbe attingere lì, ahimé: perché in Italia, a differenza che in altri paesi, l’evasione fiscale è un fenomeno largamente diffuso, di massa. Stanare i grandi patrimoni è sacrosanto ed equo, anche perché certamente “lor signori” sono per certi versi e paradossalmente trattati meglio degli altri (cedolare secca sugli affitti anche per i grandi proprietari immobiliari, capital gain con un’aliquota inferiore a qualunque reddito da lavoro, progressività relativa, ecc.), ma sarebbe indispensabile mettere mano a tutta la materia fiscale per rivedere e distribuire meglio il peso della tassazione. In sostanza è quello che ha detto Draghi a Enrico Letta quando si è sentito proporre un assegno per i giovani finanziato da una qualche forma di patrimoniale. È il momento di dare e non di prendere, ripete il premier, ma forse significa pure che se si dà a qualcuno bisogna prendere da qualcun altro.
In tutto questo, però, non si parla a sufficienza di evasione fiscale, che si calcola intorno ai 130 miliardi di euro, quanto un bel pezzo di Pnrr. Strumenti per aggredire la massa di denaro che sfugge al fisco ci sono tutti, a cominciare dalle banche dati, come quella dei rapporti finanziari, che però - si affanna a denunciare Vincenzo Visco, ministro delle Finanze nell’unica stagione in cui il recupero fiscale cresceva a due cifre - non possono essere utilizzate fino in fondo per i molti ostacoli frapposti dal garante della privacy. Eppure non è questo un tipico caso in cui l’interesse nazionale dovrebbe prevalere sui sacrosanti diritti alla riservatezza?
Molti anni fa, a cavallo del 2000, la lotta agli evasori aiutò l’Italia a entrare nella pattuglia dell’euro (dopo di che tutto tornò più o meno come prima…); oggi servirebbe ad alleggerire la zavorra che frena l’economia e condiziona la reputazione internazionale dell’Italia. La questione insomma non è tecnica, ma squisitamente politica. Tocca a partiti e movimenti spiegare agli italiani l’importanza della sfida e conquistare il consenso necessario a mettere finalmente mano a un problema storico. Non perché ce lo chieda l’Europa, ma per un’esigenza di generale equità e nel nostro stesso interesse. In teoria, questa potrebbe essere l’occasione giusta, con un governo a larghissima maggioranza e Draghi premier. Sempre che non prevalgano certi immediati interessi elettorali. E sempre che tra gli accordi che legano questa maggioranza non ci sia anche quello di fare poco in materia fiscale. Speriamo di no.
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