domenica 6 agosto 2017

UNA STORIA DELL'INDUSTRIA PESANTE IN ITALIA. S. LUZZATTO, La fierezza di Acciaro e Diname, IL SOLE 24 ORE, 24 luglio 2017

el 1984 – un secolo esatto dopo la loro nascita – le acciaierie di Terni figuravano tra i primi cinque produttori al mondo di acciaio inossidabile, ed erano il primo produttore in Italia di laminati magnetici. Nonostante la siderurgia italiana fosse in crisi da almeno un decennio, la Terni sembrava ancora potercela fare. Grazie alla qualità dei suoi tecnici e alla professionalità dei suoi operai, sembrava poter rimediare sia alle sfide crescenti della globalizzazione, sia agli errori di una dirigenza parastatale zavorrata dal clientelismo politico. Invece no. L’inizio della fine coincise con il passaggio dalla Finsider all’Ilva, nel 1988. Seguì, nel 1994, la vendita alla multinazionale tedesca ThyssenKrupp. Nel 2000, le acciaierie di Terni già erano passate dagli oltre diecimila dipendenti degli anni Ottanta ad appena tremilaseicento. Nel 2016, la società Acciai Speciali Terni ha dichiarato 2.375 addetti.


Una storia è finita, la storia della grande industria in Italia. Ed è finita la storia di Terni – indistinguibile dalla storia della Terni – come città-fabbrica. Volendo scegliere una data precisa, quella storia ha finito di finire il 29 gennaio 2004, quando la ThyssenKrupp ha annunciato la chiusura del reparto magnetico (novecento dipendenti). E gli operai hanno cinto d’assedio l’hotel Garden, dove la dirigenza tedesca era riunita con i delegati sindacali e con il sindaco di Terni. E hanno sfondato le porte a vetri dell’hotel, e hanno preso l’amministratore delegato, Harald Espenhahn, letteralmente a salatini in faccia. «C’è stato questa reazione immediata, inaspettata pure, de questa irruzione all’interno dell’albergo con, veramente una sorta de caccia all’uomo, anche in maniera non molto ragionata, però lì ce stanno persone de cinquant’anni che appena c’è stata la notizia, la prima reazione so’ state le lacrime, e subito dopo questa, annamo dentro, questi qui non se ne può più che ce buttano a monte tutto quanto, la storia, la vita de mille persone con una facilità così, estrema».
Interruzione totale della produzione, chiusura forzata delle portinerie, blocchi ferroviari e stradali. A partire dal 29 gennaio 2004, la città-fabbrica si è mobilitata per diverse settimane in una lotta sindacale d’altri tempi. Una lotta novecentesca. Con i lavoratori che presidiavano le portinerie giorno e notte. Con le mogli, i vigili urbani, le commesse di pasticceria che portavano loro da mangiare. Con gli infermieri dell’ospedale che passavano per assicurarsi che non avessero troppo freddo. «Quello era bello, era triste ma era bello, quell’unione che c’era. C’erano le famiglie, era una cosa di tutti». Fino allo sciopero generale del 6 febbraio, con trentamila manifestanti in piazza a difendere – per l’ultima volta – un’idea di lavoro, di città, di comunità. E con l’Angelus di papa Wojtyla che da Roma salutava gli operai della Terni. Fino alla vittoria di Pirro del 18 febbraio, quando la dirigenza della ThyssenKrupp ha ritirato il piano di chiusura del reparto magnetico, per farlo meglio passare l’anno dopo.
Il libro di Alessandro Portelli, La città dell’acciaio, restituisce l’insieme della vicenda di Terni e della Terni attraverso l’approccio alle fonti che l’autore predilige: il montaggio per frammenti di interviste. Metodo storico al limite del cinematografico, che ha reso Portelli un maestro riconosciuto della cosiddetta storia orale. Un narratore alla Conrad o alla Faulkner, che costruisce i propri racconti sui racconti degli altri («l’unica storia che ho sempre cercato di scrivere siete voi», recita in esergo Woody Guthrie). Ma senza inventare nulla, Portelli. Da storico ferratissimo, e ultrasensibile. Così sensibile da non avere bisogno di alcuna fuffa postmoderna – né di “contaminazioni”, né di “innesti”, né di “ibridismi” – per fare delle sue storie altrettanti capolavori narrativi.
Nella prima parte di questa storia, relativa al tardo Ottocento e al primo Novecento, i personaggi hanno nomi che valgono da soli a definire un contesto di radicalismo politico e di umori anticlericali; ma anche di fierezza professionale, e quasi quasi di provocazione futurista. Si chiamano Comunardo o Guerriero, Bruno o Arnaldo, Lucilla o Galerana; ma si chiamano anche Acciaro o Diname. Rimandano al tempo in cui i giornali operai smettevano di essere «Il Banderaro», «Il Radicale», «Il Veritiero», smettevano di riecheggiare le lotte del Risorgimento e di Garibaldi, per intitolarsi «Il Maglio», «La Biella», «La Turbina»: per trattare i lavoratori della Manchester d’Italia non soltanto da sfruttati, ma da produttori. Per vivere appieno un’età dell’acciaio e un mondo della tecnica in cui gli operai umbri tenevano a farsi – a loro modo, fra un sabotaggio e una serrata – parte diligente.
Ilario Ciaurro, nato nel 1889, intervistato nel 1981: «Io mi ricordo di una Terni piena di rumori, di canto notturno delle sirene, dei tonfi del grande maglio che facevano sussultare il giaciglio su cui dormivamo, e i magli multipli, e le berte della collina che rintronavano nella città». Intorno al 1907, i tremilacinquecento dipendenti delle acciaierie costituivano, con le loro famiglie, oltre la metà della popolazione cittadina. E la Terni sarebbe cresciuta ancora grazie alla Grande Guerra: assicurando ai soldati in grigioverde del Regio Esercito un terzo dei loro cannoni, e il 90% degli elementi sgrossati delle loro bocche di fuoco. Salvo pagare poi, nel primo dopoguerra, il prezzo di una riconversione industriale tanto necessaria quanto difficile.
La riconversione, fu il fascismo a realizzarla. Astutamente, il regime elevò la città di Terni alla gloria amministrativa di capoluogo di provincia. Soprattutto, il regime trasformò la società Terni in un’inesauribile dispensatrice di servizi assistenziali, educativi, ricreativi, commerciali, edilizi. Abitazioni operaie, impianti sportivi, spacci aziendali, villaggi con chiesa e scuola: all’Italia democristiana, l’Italia fascista finì per trasmettere – una volta rimarginate le ferite della Seconda guerra mondiale, dei bombardamenti angloamericani, dell’occupazione tedesca e della guerra civile – una città-fabbrica dove non mancava più nulla. Ma dove si faticava a ritrovare la vocazione operaia alla lotta di classe. Taurino Costantini, nato nel 1937, intervistato nel 1980: «Sarà perché l’acciaieria è questa grossa, diciamo pure, troia sdraiata sull’Umbria dove tutti s’allattano, che ti dà questa sicurezza, questa prospettiva...».
Sommati alla crisi petrolifera e alla globalizzazione incipiente, il Sessantotto, il terrorismo, il “riflusso” degli anni Ottanta avrebbero fatto il resto, consegnando quanto restava della Terni alla lotta impari che persone in carne e ossa possono combattere contro l’immaterialità di una multinazionale. Una controparte che sta dappertutto e da nessuna parte, in Germania o in India, in Francia o in Brasile. E una lotta dove per vincere davvero non basta sfondare i vetri dell’hotel Garden, né tirare salatini contro un amministratore delegato venuto da Duisburg. Quello stesso Harald Espenhahn il quale, meno di quattro anni dopo il fatidico 29 gennaio 2004, sarebbe stato coimputato dalla magistratura italiana della strage sul lavoro della ThyssenKrupp di Torino, filiale della Terni: sette operai morti nel rogo di una fabbrica insicura anche perché in dismissione.
Giovanni Pignalosa, nato nel 1970, intervistato nel 2008 dopo essere stato fra i primissimi – il 6 dicembre 2007 – a cercare di soccorrere i compagni della linea 5 di Torino, ancora vivi, ma ridotti allo stato di torce umane: «Quando ho ricevuto l’ultima notizia dell’ultimo collega, di De Masi, che non ce l’aveva fatta stavo giù a Napoli. In un primo momento me ne scappai dentro la camera da letto e incominciai a piangere. E ti giuro, vederti un mozzicone di otto anni che ti viene vicino e te dice, papà, non piangere, se hai la possibilità fagliela pagare a ’sti crucchi di merda – è un bambino, significa che ha già capito tutto della vita e non ha altre parole da aggiungere».
Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Rocco Marzo, Rosario Rodinò, Bruno Santino, Antonio Schiavone, Roberto Scola: a partire proprio da un’idea dell’operaio Giovanni Pignalosa, le vite bruciate dei suoi sette colleghi della ThyssenKrupp sono recentemente divenute la materia di uno spettacolo teatrale, intitolato Sulla nostra pelle. Come il libro di Alessandro Portelli, è questa un’opera corale, pensata perché viva la memoria. Pensata – ha spiegato lo stesso Pignalosa – per ridare una voce a chi non c’è più. Ma pensata anche perché «ciò che è accaduto alla Thyssen non succeda più, né a uno, né a sette, né a cento lavoratori, e perché nessuno debba più sentire le urla che ho sentito io quella notte».

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