venerdì 14 luglio 2017

TEORIE ECONOMICHE. ECONOMIA E PREDICIBILITA'. M. MUNAFO', Perché gli economisti non hanno previsto la crisi?, L'ESPRESSO, 14 luglio 2017

Ma perché nessuno ha visto arrivare questa crisi economica?». La domanda fatta davanti a quel pubblico non era una delle più originali, anzi: se non fosse stato per il contesto particolare e per gli ancor più speciali protagonisti della discussione, sarebbe stata forse derubricata come una banalità, una provocazione, niente di più. Ma visto che a porre il quesito è stata la Regina Elisabetta II di Inghilterra, e le persone a cui lo rivolge in quel novembre del 2008 sono gli accademici della prestigiosa London School of Economics, di banale c’è molto poco. L’economista è nudo: e a farglielo notare è un Sovran. Così, nei mesi successivi, gli studiosi si impegnano per formulare una risposta all’altezza della regnante, arrivando ad ammettere «un fallimento dell’immaginario collettivo di molte persone brillanti a livello nazionale 
e internazionale (gli economisti ndr) nel comprendere 
i rischi per il sistema nel suo complesso».



L’immaginario collettivo degli economisti: ecco il colpevole. Quell’economia mainstream costruita intorno a teorie largamente condivise e, come tali, insegnate come dogmi nelle università di tutto il mondo. Università da cui poi escono altri economisti “fedeli” a queste teorie rivelatesi già una volta non in grado di vedere la crisi che stava arrivando.




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Un circolo vizioso contro cui alcune voci critiche dentro gli atenei iniziano a ribellarsi: solo che queste voci non arrivano da docenti o studiosi affermati. Ma dal basso, dagli studenti. «L’istruzione economica è monopolizzata da una singola scuola di pensiero, quella chiamata “economia neoclassica”. Eppure pochissimi studiosi che lavorano all’interno di questa cornice hanno predetto la crisi finanziaria», spiega la Post-crash economics society, un’associazione di studenti che dall’Università di Manchester ha lanciato un appello propagatosi in fretta negli atenei di tutto il mondo occidentale e da cui è partita una richiesta globale per ripensare radicalmente l’insegnamento della materia.

Nata nel 2012 da un gruppo di appena sette ragazzi, la Post-crash economics society è in pochi anni riuscita a porre al centro del dibattito accademico la necessità di introdurre un maggiore pluralismo nei corsi di studio di economia e sostiene l’importanza di affiancare all’insegnamento della scuola neoclassica anche teorie oggi tenute ai margini dal mondo accademico. Tra queste scuole di pensiero alternative, la Pces segnala due lavori tornati in auge per spiegare la crisi finanziaria: la critica fatta dalla scuola Austriaca, secondo cui è l’intervento delle banche centrali sui tassi di interesse a creare uno squilibrio che poi la recessione interviene per risolvere, 
o l’ipotesi dell’instabilità finanziaria di Minsky, che teorizza l’euforia speculativa a cui poi segue l’aumento del credito 
e il panico di fronte alla fine dell’aumento dei prezzi, facilmente applicabile all’esplosione della bolla dei mutui Subprime 
negli Stati Uniti (alimentata dall’estrema facilità di accesso 
al credito da parte di soggetti rivelatisi poi incapaci 
di restituire il dovuto).



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«Prima della crisi erano tutti d’accordo sul fatto che l’economia neoclassica avesse svolto un ruolo centrale nel risolvere molte delle grandi questioni economiche – spiegano gli studenti – Ma ora i professori delle Università non possono più giustificarne 
il monopolio e sostenere che questa abbia tutte le risposte. L’omogeneità crescente nei dipartimenti ha ridotto il dibattito 
e le voci critiche sono state emarginate. Oggi la capacità di confrontare e valutare criticamente le prospettive alternative deve tornare al centro dell’educazione economica e diventare una parte fondamentale del bagaglio dei giovani economisti».

L’esempio del gruppo di Manchester non è rimasto confinato all’Inghilterra. Da quella e da altre esperienze simili, in tutto il mondo, sono spuntati negli ultimi anni gruppi che si prefiggono l’obiettivo di allargare gli orizzonti degli insegnamenti economici. Riuniti in network internazionali come Rethinking Economics, si contano rappresentanze 
in quindici paesi occidentali e in dieci atenei del centro-nord solo in Italia, 
a dimostrazione di un’esigenza sentita 
in tutto il mondo accademico.

La mobilitazione dal basso ha ottenuto tanti consensi da riuscire a richiamare anche economisti di primo piano: il libro Econocracy (un titolo che richiama a un gioco di parole tra econo-pazzia ed econo-crazia) realizzato da uno dei fondatori della Post-crash economy society e che espone in maniera più strutturata le teorie del gruppo, ha ottenuto ad esempio l’endorsement tra gli altri di big come Martin Wolf, 
Vince Cable e Robert Skidelsky. L’economista, finalmente, 
si è accorto di essere nudo.

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