martedì 10 luglio 2012

CRISI ECONOMICA E PSICOANALISI. VEGETTI FINZI S., Giovani in cerca di un altro futuro, LA LETTURA, 8 luglio 2012

In un contesto culturale straordinariamente favorevole, la psicoanalisi nasce all’inizio del secolo scorso nell’ambito della borghesia ebraica viennese combattuta tra il desiderio di riconoscimento e integrazione sociale e l’insofferenza per gli aspetti autoritari e repressivi del burocratico impero asburgico. Poteva sembrare un fenomeno locale e contingente ma la rapida diffusione in Europa, negli Stati Uniti e nell’America del Sud doveva dimostrare che il nuovo sapere aveva colto aspetti universali della mente umana e stava contaminando in modo straordinario la letteratura, che da La coscienza di Zeno (1923) in avanti fece proprie le istanze dell’inconsciomodificando anche il linguaggio letterario.



In Italia la psicoanalisi, già esercitata come terapia, si diffonde con rapidità, a decorrere dalla seconda metà degli anni 70, soprattutto tra i giovani, come alternativa alla delusione provocata dalla incapacità della politica di accogliere ed elaborare le istanze di rinnovamento espresse dalla contestazione studentesca e dai movimenti civili. In una fase di sviluppo economico e di verticale mobilità sociale, la psicoanalisi offriva, nell’ultimo trentennio del ’900, la possibilità di una intensa esperienza culturale, capace di ovviare al vuoto esistenziale provocato dalla secolarizzazione della società e dall’ideologia dei consumi.
Ma ora, in un’epoca di crisi economica, crescente disoccupazione, mancanza di fiducia nel presente e speranza nel futuro la psicoanalisi ha ancora qualcosa da dire? Ci può davvero aiutare oppure va relegata nel passato come altri beni di lusso? La persistente domanda di psicoterapie di ispirazione psicoanalitica testimonia che questa risorsa è tuttora valida, benché minacciata dalla facile somministrazione di cure farmacologiche e da improvvisati terapeuti dell’anima. È valida perché, nonostante progressive ristrettezze, non siamo ridotti alla necessità di soddisfare i bisogni primari, come poteva accadere nel ’43, quando la sopravvivenza costituiva un’urgenza totalizzante. Permangono, nonostante tutto, i desideri che costituiscono, come sosteneva Spinoza, il fulcro della esistenza umana. Il giovane in cerca di prima occupazione, l’impiegata in cassa integrazione, il manager esodato, il coniuge abbandonato, la madre sola non necessitano sempre e soltanto di aiuti economici. Hanno piuttosto bisogno di conservare o recuperare fiducia in se stessi, autostima, voglia di resistere e ricominciare. E la psicoanalisi li può aiutare con la forza di un patrimonio secolare di conoscenza e di saggezza, con una pratica convalidata di ascolto partecipato nello scambio di pensieri e di affetti. Nel suo ambito si attivano processi perenni e universali come quelli che riguardano i rapporti parentali (complesso di Edipo) insieme ai conflitti sociali e individuali della tarda modernità. Gli psicoanalisti sanno di essere per certi versi inattuali perché il loro oggetto, l’inconscio, non conosce le categorie aristoteliche di tempo, spazio, causa e non contraddizione, ma anche attuali in quanto i sintomi «parlano» qui e ora e persino i sogni si avvalgono delmateriale diurno per mettere in scena conflitti che spesso risalgono alla prima infanzia. La difficoltà dei pazienti è piuttosto quella di sottrarsi alla tentazione di mettere a tacere il sintomo con il pronto intervento di psicofarmaci, per darsi il tempo di percorrere un itinerario di conoscenza di sé e del mondo che li aiuti a recuperare le loro risorse e a prospettare un futuro possibile e desiderabile. Non si tratta certo di un esercizio di onnipotenza perché l’analisi comporta l’esaustione di tutte le impossibilità prima di giungere a riconoscere i pochi gradi di libertà che ci sono concessi.
L’onnipotenza, la pretesa di avere tutto e subito costituisce infatti, in questi anni, il denominatore comune di sintomatologie che possono sembrare addirittura opposte. Da una parte emerge la ricerca di un godimento che va al di là del piacere, che scavalca la soddisfazione, che supera il limite per ricercare l’eccesso, per concedersi una dismisura che, incurante del danno, sfiora la morte. In questo ambito si collocano le dipendenze, dove quelle da sostanze stupefacenti sono le più clamorose ma non le uniche. Tutto può indurre dipendenza: il cibo, il sesso, il gioco, il fumo, il viaggio, il sonno, persino lo studio.
Dall’altra troviamo una nuova, inquietante forma di malessere, soprattutto giovanile. Sono sempre più numerosi i ragazzi che di fronte a una società fredda, ostile e duramente competitiva, gettano la spugna e abbandonano il ring. Oppressi fin da piccoli dalle pretese familiari di successo in ogni campo — gli studi, lo sport, le amicizie, la seduzione — decidono di farsi da parte, di non chiedere niente a sé e agli altri, di vivere accettando una morte a piccole dosi. Se non possiamo ottenere tutto, sembrano dire, meglio non avere niente. In un primo tempo possono sembrare buoni, troppo buoni, a genitori spesso impegnati in conflitti coniugali o nella realizzazione di sé. Ma progressivamente emergono la disistima e persino la vergogna che provano per la propria inadeguatezza. Mentre nella famiglia patriarcale il motto inciso nella mente dei ragazzi era «non devo», ora si è trasformato in «non posso», nel senso di «non ce la faccio: lasciatemi stare che non ho nulla da chiedere e nulla da perdere». Il tentativo della psicoterapia sarà allora quello di riportare l’esule volontario tra noi e di riannodare il filo della sua storia in modo che i desideri del passato, una volta recuperati, si proiettino sul futuro. Ma non è facile in quanto, se manca la domanda di aiuto, non si instaurano le condizioni per un dialogo psicoanalitico.
Tra questi due poli si situa un ventaglio di malesseri che la psicoanalisi non generalizza ma tratta caso per caso, personalmente, secondo una modalità antica che si rifà per certi versi alla pratica della confessione. Gli psicoanalisti, dal canto loro, sono ben consapevoli di dover navigare tenendo un occhio sulle stelle fisse e l’altro sul mare in tempesta. Non a caso l’ultimo congresso della Società Psicoanalitica Italiana era dedicato a temi inconsueti alla sua riflessione quali «Denaro, potere e lavoro tra etica e narcisismo» su cui erano invitati al dialogo rappresentati della società come Susanna Camusso, segretario del sindacato Cgil.
Tornando al punto di partenza — se la psicoanalisi sia più richiesta in tempi di benessere o di malessere sociale — credo che essa accolga e gestisca il mandato socratico che sta alla base della nostra cultura — «Conosci te stesso» — e che lo svolga, fermi alcuni principi di teoria e dimetodo, secondo i tempi e i modi del contesto storico in cui si trova a operare. L’importante è evitare il pericolo di ogni istituzione: la rigidità dogmatica, la difesa dei privilegi, la burocrazia dei rapporti. Quanto almercato delle psicoterapie, vorrei ricordare l’osservazione che Freud dedica agli analisti del suo tempo, preoccupati per la durata e il costo del trattamento: «…se si contrappone l’incremento della capacità di fare e di guadagnare ottenuto al termine di una cura analitica portata a buon fine, si può dire che i malati hanno fatto un buon affare. Nella vita non c’è nulla di più dispendioso della malattia e della stupidità».

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