Hanno cercato in molti, e molti cercano ancora, di demolire, o almeno minimizzare, ciò che Thomas Piketty ha detto esplicitamente nel suo recentissimo libro Il Capitale nel ventunesimo secolo, ovvero che il nocciolo di tutti i problemi legati alla crisi e alla globalizzazione sono intrinseci al moderno capitalismo.
Ed è significativo che, in supporto a Piketty si schierino voci di grandissimo peso nel campo dell’economia globale, come quelle dei due economisti premi Nobel Joseph Stiglitz e Paul Krugman, che in due interessantissimi articoli sul New York Timesdello scorso week-end (“Inequality is not inevitable” di Stiglitz e “Charlatans, cranks and Kansas” di Krugman”) stigmatizzano senza tentennamenti il comportamento indecoroso della stragrande maggioranza dei moderni capitalisti, reso possibile solo dall’alleanza (o peggio, sudditanza) di gran parte dell’attuale rappresentanza politica, appiattita, forse più per abitudine che per convinzione, nell’idea che per dare il miglior rendimento il mercato deve essere lasciato completamente libero di muoversi a suo piacimento e che per funzionare bene deve liberarsi il più possibile del gravoso peso della tassazione, che immette un peso insopportabile sull’autonomia e sul buon funzionamento dell’iniziativa imprenditoriale e degli scambi commerciali.
Krugman, per esempio, prende di mira il governatore del Kansas Sam Brownback che, per mantener fede alle sue convinzioni, appena eletto ha letteralmente dichiarato guerra alle tasse sui redditi di ogni tipo, sostenuto nella sua “crociata” da Arthur Laffer, un economista gia’ molto discusso per le sue scelte estreme prima durante e dopo la presidenza di George Bush (padre), quando ebbe l’opportunità di collaborare a stretto contatto con Gregory Mankiw, a quel tempo capo consigliere economico del presidente.
Questa teoria economica, dice Krugman, si fonda sulla convinzione che “i tagli alle tasse sospingono l’economia cosi efficacemente che, se non completamente, di certo almeno largamente arrivano a pagarsi da soli”.
Infatti è lo stesso Mankiw che, sul NYT di ieri in un articolo titolato “How inherited wealth helps the economy” (come la ricchezza ereditaria aiuta l’economia) sostiene ancora la strampalata teoria dei tagli alle tasse che si pagano da soli e riprendendo la ancor più strampalata teoria del suo vecchio libro Ciarlatan and cranks (ciarlatani e anticonformisti, definizione ripresa ora nel titolo dell’articolo di Krugman) che la ricchezza ereditaria contribuisce alla ricchezza della nazione.
Mankiw sostiene in sostanza che l’altruismo generazionale (!?) alla base del lascito ereditario, tende a perdere consistenza tra le successive generazioni, quindi ne deriva una sostanziale distribuzione a favore della società, diminuendone le disuguaglianze. Che sia strampalata questa teoria è dimostrato dal fatto che tutte le statistiche dicono che negli ultimi trent’anni la ricchezza è andata concentrandosi sempre più in alto, nelle mani di pochi, a scapito del ceto medio. Come faccia poi a non vedere che questo capitalismo di fatto ha importato (sotto altra veste) nel sistema democratico le stesse disuguaglianze ereditarie che esistevano nelle monarchie, è un mistero.
Comunque la teoria dei tagli alle tasse che si pagano da soli sviluppando l’economia sta fallendo miseramente in Kansas. E’ lo stesso Krugman a dirlo, e infatti Brownback non sa più che pesci pigliare per coprire le spese ordinarie dello Stato. Non volendo colpire i suoi ricchi sostenitori finirà, come è ormai diventata prassi comune nei paese capitalisti, con l’alzare la tassa sui consumi, che colpisce indistintamente tutti, ma proporzionalmente molto di più i poveri che i ricchi.
Proprio su questo risultato economico si concentra anche tutto l’articolo di Stiglitz, che dà ragione a Piketty e descrive con grande preoccupazione le gravi disuguaglianze che, a partire dalla caduta del muro di Berlino, tendono a diffondersi sempre di più anche nei paesi in cui era stato raggiunto un certo benessere ed equilibrio sociale. E’ inconcepibile, secondo Stiglitz, che in un paese ricco come quello americano si debba ancora oggi guardare con invidia ai paesi scandinavi come ai migliori sul piano dell’eguaglianza sociale.
E’ questo capitalismo a generare l’anomalia, dice in sostanza Stiglitz. Se il sistema è fondato sui soldi, la disuguaglianza economica contagia la politica, che a sua volta si trasforma in maggiore disuguaglianza economica, in un ciclo degenerativo molto grave per la società e per la nazione. Troppo grande è diventata la disuguaglianza negli Usa, dove un top manager mediamente guadagna295 volte quello che guadagna un tipico lavoratore. Negli ultimi venti-trent’anni, a causa di una malintesa guerra agli sprechi, sono stati ridotti o cancellati, anche nel periodo di punta della crisi, diversi benefici e/o sostegni a favore dei poveri, mentre sono stati mantenuti intatti quelli a favore dei ricchi.
Tuttavia per rilanciare l’economia è indispensabile ora, dice Stiglitz, riequilibrare e sostenere con vigore le politiche reddituali del ceto medio, solo così l’economia americana potrà tornare alla sua piena potenzialità e crescita.
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