Lo so: pare quasi un ossimoro umoristico, il titolo qui sopra: nulla sembra più lontano dalla società liquida e automatizzata dei piani quinquennali che tanto piacevano a Stalin.
Invece, più leggo cose in giro sulle trasformazioni del lavoro provocate dalla digitalizzazione e dall’intelligenza artificiale, più mi aspetto che qualcuno inizi a rifletterci seriamente, su come sarà il socialismo nell’era dei robot.
Perché le macchine, si sa, hanno sostituito il lavoro umano prima nell’agricoltura e poi nell’industria, spostando la massa dei lavoratori dai campi alle fabbriche, poi dalle fabbriche al terziario.
Ora però robot e algoritmi sostituiscono – sempre di più – anche i “colletti bianchi”: e pare non esista al momento un altro posto dove spedirli, se non verso la disoccupazione.
Si parla ormai con frequenza, ad esempio, di robochirurghi e robodentisti (più in generale, secondo il cofondatore di Sun Microsystems Vinod Khosla l’80 per cento dei medici sarà felicemente sostituito da computer) ma anche di robogiornalisti (pure l’Ap ci sta provando) e di docenti virtuali; i rampanti agenti di Borsa potrebbero essere decimati dall’algotrading, gli operatori di call center dagli assistenti virtuali, gli interpreti dalle future e più affinate versioni di Google Translate o simili; i taxisti, più che da Uber, saranno fatti fuori dalle auto che si guidano da sole; ah: anche le navi commerciali hanno sempre più spesso al timone solo computer, addio marinai.
E così via: secondo uno studio dell’Università di Oxford il 47 per cento dei lavori attuali è a rischio di sostituzione computerizzata. Il ministro inglese dell’Università David Willets sostiene che le professioni con un livello cognitivo medioalto hanno probabilità sempre maggiori di essere sostituite da robot. Equello che dice Jaron Lanier in merito, probabilmente, l’avete già letto.
Il dibattito sull’argomento, all’estero, è molto vivo, anche grazie al libro ‘The Second Machine Age’, di cui qui in Italia ha scritto Fabio Chiusi: e i due autori del saggio, pur ottimisti in termini di possibilità, ammettono tranquillamente che il saldo dell’innovazione – in termini di posti di lavoro – è decisamente negativo.
La sfida per la politica quindi è immensa. E – ad esempio – la questione del cosiddetto reddito minimo garantito entra a piedi uniti nel piatto: nell’impossibilità di garantire a tutti un lavoro, per prevenire collassi sociali gli Stati potranno e dovranno solo garantire qualche tipo di ridistribuzione della ricchezza creata da algoritmi e robot. Così, perfino una bibbia del capitalismo come l’Economist ha recentemente invitato i governi ad affrontare la tendenza in corso «before their people get angry», insomma prima che la gente si incazzi troppo.
Ecco, è questo il tema del socialismo nell’era dei robot. Mica i piani quinquennali, è ovvio: semplicemente la necessità che gli Stati intervengano in modo robusto nel sociale – altro che laissez-faire – perché l’automazione e gli algoritmi “staccano” la produzione di ricchezza dal lavoro umano.
Sono cazzi, lo so: perché i criteri di questa ridistribuzione non sono affatto chiari né scontati, essendo probabilmente a loro volta scissi da competenze, studi, capacità. Ma sono cazzi da affrontare, credo.
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