giovedì 27 luglio 2017

UNA REPUBBLICA FONDATA SUL LAVORO. R. GENOVESE, Articolo 1? Ma sarebbe da cambiare!, IL PONTE, 26 febbraio 2017

Spesso sento dire che saremmo conservatori perché non disposti a mutare neppure una virgola dell’impianto costituzionale della Repubblica. Non è così. L’Articolo 1, per esempio, se fosse possibile lo riformuleremmo volentieri. Guarda caso, però, proprio questo è stato assunto a simbolo della formazione politica appena uscita dal Pd, con l’apporto di un certo numero di deputati in trasferimento da Sinistra italiana.


Come ognuno sa l’articolo 1 della Costituzione, nella prima parte, recita così: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. È una formulazione sostenuta nell’assemblea costituente dalla Democrazia cristiana, parecchio diversa da quella che le sinistre avevano proposto, che invece era questa: “L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori”. Passò l’accezione più sfumata, quella che permette a un proprietario terriero di sentirsi al lavoro quando dà disposizioni ai propri contadini, come accadeva soprattutto allora, e ai tempi nostri a un manager (la cui attività consiste per lo più nel fare telefonate) di sentirsi uno che lavora allo stesso titolo di un bracciante che si rompe la schiena nella raccolta del pomodoro – consentendo per giunta al primo di fargli pensare che sia giusta una remunerazione mille volte superiore a quella del secondo, perché lui svolge mansioni di alta responsabilità organizzativa.
Anche se “Repubblica di lavoratori” sarebbe stata una definizione più precisa, e socialmente non sfuggente, rispetto a “Repubblica fondata sul lavoro”, oggi nessuna delle due appare più appropriata. Perché? Anzitutto perché è mutata la condizione dei lavoratori – un tempo operai di fabbrica o agricoli, impiegati, insegnanti, intellettuali a posto fisso, nel mondo della scuola come nelle redazioni dei giornali, o al contrario disoccupati –, adesso piuttosto “partite Iva”, precari talvolta a vita, forza lavoro con i voucher o immigrati semplicemente “in nero” e schiavizzati. La figura sociale del lavoratore, con una propria identità e dignità, si è andata frantumando in una serie di figure minori: il lavoro è diventato “i lavori”, o addirittura “i lavoretti”, che difficilmente indurrebbero una Repubblica a fondarsi sopra di essi. In secondo luogo, per una ragione più essenziale. La croce o la delizia di ciò che eravamo abituati a chiamare lavoro sta terminando: lo sviluppo della tecnologia consentirebbe, già ora, di ridurre la giornata dedicata alla produzione e riproduzione dei beni a non più di tre o quattro ore. Occorrerebbe una radicale riforma sociale per attuare ciò sia pure gradualmente; ma è un fatto che, nel senso comune, il lavoro non è quasi più avvertito come un valore, semmai come una perdita di tempo per mettere insieme un salario sempre più volatile, mentre nella vita delle persone appaiono  più importanti gli spazi di autorealizzazione del cosiddetto tempo libero.
Di qui la proposta che vorrei avanzare, quella di emendare la prima parte del primo articolo della nostra Costituzione nel modo seguente:
L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul principio dell’individualismo sociale, riassumibile nella formula “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Sarebbe lo sviluppo coerente di quel grano di socialismo presente nella Carta del 1948, che oggi andrebbe ripreso e aggiornato. L’individuo sociale, indicato come un principio, non è il lavoratore incatenato alla produzione insieme con gli altri lavoratori, o l’operaio della catena di montaggio, ma è un obiettivo a cui tendere nel senso di un’emancipazione del lavoratore dal lavoro stesso, che consenta a chiunque di vivere degnamente per il solo fatto di essere al mondo. Qualcosa che sarebbe possibile attraverso un’equa distribuzione delle risorse.
Vengo allora alla seconda parte dell’articolo 1, che dice: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ciò che qui non funziona è proprio l’asserzione, peraltro tradizionalmente democratica, di una sovranità che apparterrebbe al popolo. In realtà, seguendo Claude Lefort, si dovrebbe affermare piuttosto che la sovranità non appartiene a nessuno, che essa in democrazia è il “posto vuoto” del sovrano. Inoltre la nozione di “popolo” (a parte le forzature populistiche che se ne possono trarre) appare in se stessa ambigua: le folle che inneggiavano a Mussolini e Hitler non erano forse un popolo? Più preciso sarebbe stato scrivere nella Cosituzione “popolo lavoratore”, che a quei tempi era un’espressione corrente. Ma oggi? Chi si sognerebbe di sostenere che i differenti popoli, nel senso delle diverse culture, o le masse atomizzate dell’individualismo capitalistico-consumistico, costituiscono un popolo e uno solo?
Dunque quello di “sovranità popolare” appare un concetto obsoleto, adatto a sintetizzare in uno slogan le battaglie democratiche anti-assolutistiche e anti-totalitarie del passato, ma sfasato ormai rispetto ai tempi. Di qui la mia proposta:
Il potere è un mezzo che la Repubblica si impegna a rendere il più diffuso possibile, nel senso di un costante processo di democratizzazione secondo le esigenze di individui e di gruppi riuniti nelle forme associative previste dalla Costituzione.
Il passaggio circa le “forme associative” rinvia a una modifica e a uno sviluppo dell’articolo 43 che consentirebbe già oggi, in taluni casi, l’autogestione dei cosiddetti beni comuni. È quindi più di un articolo della Costituzione che andrebbe cambiato – ma nel senso opposto allo sconquasso che tentativi recenti avrebbero prodotto.

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