Dagli anni Settanta, con la fine della crescita economica e, poi, con l’avanzare della rivoluzione neoliberista, quel patto sociale viene meno. Il capitale avanza, la democrazia indietreggia. Saltano i vincoli politici e istituzionali che avevano trattenuto «gli spiriti animali» del capitalismo. Che vince, ma vince troppo. Oggi, a rivoluzione compiuta, il capitalismo è in rovina «perché ha avuto troppo successo», spiega Wolfgang Streeck a l’Espresso.
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Professor Streeck, per comprendere la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 lei ha scelto di enfatizzare «le continuità storiche» del capitalismo, rintracciando una lunga «traiettoria di crisi» iniziata negli anni Settanta del secolo scorso. Perché questa scelta?
«Perché la crisi attuale non è un fenomeno accidentale, ma il culmine di una lunga serie di disordini politici ed economici che indicano la dissoluzione di quella formazione sociale che definiamo capitalismo democratico. La traiettoria di crisi corrisponde al processo con cui il capitalismo si è liberato dalle catene, fragili, che gli erano state imposte dopo la seconda guerra mondiale. Indica la trasformazione dell’economia capitalistica dal keynesismo del dopoguerra a una formula politica opposta, di stampo neo-hayekiano, che punta alla crescita attraverso la redistribuzione dal basso all’alto, non più dall’alto al basso. È una transizione che produce una democrazia addomesticata dai mercati, ribaltando quel patto sociale post-bellico che vedeva i mercati addomesticati dalla democrazia. Considerata produttiva nel keynesismo, la democrazia egualitaria diventa un ostacolo all’efficienza».
Secondo la sua analisi, con il «crollo nel 2008 del keynesismo privatizzato» la crisi del capitalismo democratico sarebbe entrata nella sua «quarta e ultima fase». Quali sono le fasi che ci hanno condotto fin qui?
«Il capitalismo democratico del dopoguerra aveva trovato un equilibrio, instabile, tra gli interessi del capitale e dei cittadini. Dagli anni Settanta, venuta meno la crescita, i conflitti distributivi tra capitale e lavoro vengono affrontati con espedienti politici diversi, per creare l’illusione di una crescita inclusiva. Usati per guadagnare tempo, inflazione, debito pubblico e debito privato diventano però problemi di per sé, segnando tre crisi. La prima, negli anni Settanta, è quella dell’inflazione globale, a cui segue l’esplosione del debito pubblico negli anni Ottanta e la crescita dell’indebitamento privato nel decennio successivo, culminata nell’ultima fase, con il collasso dei mercati finanziari nel 2008. Da quattro decenni, lo squilibrio è la normalità. La crisi è dell’economia, ma anche del capitalismo come ordine sociale. Nei Paesi ricchi sono i tre sintomi principali, di lungo termine: il declino della crescita economica, l’aumento dell’indebitamento e la crescente disuguaglianza. A cui si aggiungono cinque disordini sistemici: la stagnazione, la redistribuzione oligarchica, il saccheggio del dominio pubblico, la corruzione e l’anarchia globale»
Per lei, queste crisi e trasformazioni non sono funzionali a un nuovo equilibrio sistemico, ma indicano un processo di «decadenza graduale ma inesorabile»: la fine del capitalismo. Se è vero che sin dall’Ottocento “le teorie sul capitalismo sono anche teorie sulla sua fine”, perché dovrebbe essere diverso, questa volta?
«Il fatto che il capitalismo sia riuscito a sopravvivere alle teorie sulla sua fine non significa che sarà in grado di farlo sempre. La sua sopravvivenza è sempre dipesa da un costante lavoro di riparazioni. Ma oggi le tradizionali forze di stabilizzazione non possono più neutralizzarne la sindrome da debolezza accumulata. Il capitalismo sta morendo perché è divenuto più capitalistico di quanto gli sia utile. Perché ha avuto troppo successo, sgominando quegli stessi nemici che in passato lo hanno salvato, limitandolo e costringendolo ad assumere forme nuove. Siamo di fronte a una dinamica endogena di autodistruzione, a una morte per overdose da sé stesso. Seguirà un lungo interregnum, un prolungato periodo di entropia sociale e disordine. La sua fine va intesa come un processo, non come un evento».
Immanuel Wallerstein ritiene che l’interregnum sarà contrassegnato da un confronto globale tra i sostenitori e gli oppositori dell’ordine capitalistico, «la forza di Davos e quella di Porto Alegre». Al contrario, lei esclude conflitti sociali dalla natura globale. Perché?
«Diversamente da Wallerstein, non vedo un’opposizione globale e unita al capitalismo, che lo sfidi per istituire un ordine nuovo e migliore. Al livello nazionale, ci saranno e ci sono movimenti di opposizione e contestazione, ma disuniti e spesso disorientati, contro un sistema e una classe capitalistici globali. C’è una differenza fondamentale tra conflitti e trasformazione strategica. L’obiettivo strategico ultimo, comune, deve ancora essere sviluppato. Non c’è nessun nuovo ordine dietro le quinte. Ci aspetta invece un’era di disordine, di grande confusione e indeterminatezza, piena di rischi».
Lei da una parte sostiene che occorra «de-globalizzare il capitalismo» per «riportarlo nell’ambito del governo democratico», dall’altra che dovremmo «cominciare a pensare alle alternative al capitalismo», anziché migliorarlo. Sono fini compatibili? Un capitalismo de-globalizzato è realistico?
«Il capitalismo globale non può essere governato dalla democrazia nazionale. Al contrario, la evira. Dal momento che la democrazia globale è inconcepibile, ne risulta che il capitalismo globale è incompatibile con la democrazia.
Se vogliamo che il capitalismo sia governato, dobbiamo renderlo meno globale. Cosa c’è di pericoloso in questo? È molto più pericoloso lasciare indifesi individui, famiglie, economie regionali e nazionali rispetto ai capricci dei mercati internazionali, con il rischio che cerchino protezione nei Trump e nei Le Pen di turno. Lo trovo evidente».
Per qualcuno l’Unione europea può ancora essere un argine contro la definitiva affermazione della globalizzazione neoliberista. Lei al contrario ritiene che l’integrazione europea sia un «sistematico svuotamento delle democrazie nazionali dai contenuti politico-economici». Perché?
«Basta guardare al Trattato di Maastricht. Negli anni Ottanta c’era ancora la speranza che l’“Europa” potesse interrompere la marcia nel neoliberismo cominciata da Margaret Thatcher. Ma l’“Europa sociale” e social-democratica è stata accantonata. E oggi non c’è strada che ci riporti alla socialdemocrazia. Sotto la dura moneta comune, per i governi nazionali ciò che rimane del compito “europeo” è imporre le “riforme strutturali” neoliberali nei propri Paesi. La Banca centrale europea, con il sostegno del governo tedesco, fa tutto ciò che può per mantenere al potere i governi pro-europei (pro-euro, pro-riforme neoliberali), aspettandosi che ricostruiscano le proprie società in linea con le prescrizioni neoliberali su competitività e flessibilità. È un esperimento sociale e tecnocratico condotto sui popoli dell’Europa».
Nella sinistra europea è diffusa l’idea che, per scongiurare la crescita di partiti e movimenti populisti, occorra rivendicare l’internazionalismo, aggiornandolo. Lei invece è molto scettico sulla democrazia e sulla società civile a dimensione continentale. Perché?
«Perché non ci sono le condizioni per realizzarle. Non esiste un’opinione pubblica europea. La popolazione è organizzata in popoli con lingue diverse, differenti memorie storiche, diverse istituzioni politico-economiche nell’intersezione tra il capitalismo e la società. Se una “democrazia pan-europea” dovesse essere una democrazia giacobina maggioritaria, funzionerebbe come l’euro: a vantaggio di alcune nazioni e a scapito di altre. Verrebbe percepita come un complemento alla tecnocrazia continentale dell’unione monetaria. Non esiste futuro ordine europeo senza gli Stati-nazione. Ogni tentativo di imporre un’unica soluzione ai problemi della governance democratica disgregherebbe l’Europa, anziché unirla. Come ha fatto l’euro».
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