Sono barista e commessa da 18 anni. Lavoro in nero da sempre. 3 euro e 50 l’ora, 53 ore la settimana, compresi il sabato e la domenica. Ferie e malattie non retribuite. Una figlia piccola a carico. Ho avuto, ieri, un grave lutto in famiglia e ho chiesto il giorno libero per recarmi ai funerali. Ma sapete cosa mi è stato risposto? ‘Il permesso non può esserti concesso’, perché avrei dovuto avvisare una settimana prima. E io ho replicato: ‘la morte non ti avvisa prima’”.
Questa è la storia di Fulvia, vittima di ordinario sfruttamento in un centro commerciale italiano che non arretra nemmeno di fronte al tabù dell’evento più “straordinario” di tutti: la fine. Omettiamo il suo cognome perché del suo lavoro, nonostante non le riconosca i diritti più elementari come quello di dare l’ultimo saluto a un parente stretto, non può farne a meno. “Sono indignata. Non hanno rispetto neanche di un lutto. Sono disperata. Non ce la faccio più a sopportare tutto questo, le umiliazioni davanti ai clienti in primis, per una manciata di euro”. La testimonianza di Fulvia deve aver toccato un nervo scoperto e infranto un vaso di Pandora vista la catena di reazioni e rivelazioni che ha suscitato su Facebook.
Scrive Rosy N.: «22 anni fa, appena arrivata a Roma, sono stata per due anni in nero con la promessa del contratto. Poi è morta mia nonna, e mi hanno riservato lo stesso trattamento che è toccato a Fulvia. Impaurita e disgustata, ho cercato un altro lavoro ma prima ho aperto una vertenza sindacale che ancora se la ricordano. Avevo tanta di quella paura; ma i tre giorni di lutto previsti per legge me li sono fatti tutti».
La normativa nazionale (legge n. 53/2000 con relativo regolamento di attuazione D.M. 21.07.2000 n. 278) prevede questo: "La lavoratrice e il lavoratore hanno diritto a un permesso retribuito di tre giorni lavorativi all'anno in caso di decesso o di documentata grave infermità del coniuge o di un parente entro il secondo grado, o del convivente”. Permessi retribuiti dall’azienda pure per i lavoratori con contratto a tempo determinato. Ma quelli in nero come Fulvia (da quasi 20 anni…) sono tagliati fuori e la stessa prassi distorta investe, spesso, i dipendenti (privati e pubblici) contrattualizzati. «Io lavoro in un ex Provveditorato agli studi, un comparto, perciò, statale – afferma Ornella G. - a un collega che chiedeva un permesso per il funerale di un congiunto di primo grado, il dirigente gli ha sibilato che non poteva concedergli più di un'ora».
Paola V.: «Non troppo tempo fa, nonostante un regolare contratto a tempo indeterminato, quando morì mio zio, a cui ero legatissima, non mi consentirono di andare via un giorno prima. Volevo rivederlo un’ultima volta, anche se da defunto e dentro una bara. Sono arrivata al cimitero a funerale iniziato».
Stefania G.: «Cara Fulvia, capisco benissimo la tua rabbia. Successe anche a me. Chiesi un giorno di permesso per la cerimonia funebre e mi venne risposto: “Dovevi pensarci 15 giorni fa"».
Ma la morte non avvisa prima, non timbra il badge. «Mi è capitato varie volte che morisse un nostro collega di lavoro, che magari conoscevamo da 30 ani, ma non potevamo partecipare al suo funerale perché la produzione doveva andare avanti, solo chi era fuori turno poteva andarci – racconta all’Espresso Francesco Iacovone, sindacalista del settore commercio -. Per non dire delle battaglie per poter abbassare anche solo un minuto gli altoparlanti che diffondono la musica nei centri commerciali, quando muore uno di noi. Capita persino che blocchino le comunicazioni di morte per farti finire regolarmente il turno. L’azienda viene a conoscenza prima di te del decesso di tua madre, tua moglie o tuo nonno, ma non ti dice nulla per non lasciare scoperta la cassa». Il profitto über alles, che viene prima di tutto: prima della vita, e prima della morte.
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