Sul palcoscenico Han e Sophia discutono del futuro del genere umano. «Entro 20 anni i robot potranno fare tutti i lavori dell’uomo» dice Han, espressione spavalda sotto un cappello a falde larghe. «Ma gli uomini sono più riflessivi dei robot e hanno una loro capacità di correggersi» ribatte garbatamente Sophia, con un visetto che ricorda vagamente Audrey Hepburn. Hal e Sophia sono due robot: umanoidi creati dal genio di Ben Goertzel, un brasiliano con radici per metà statunitensi per metà est europee. La sua azienda, Hanson Robotics, ha sede in Texas, ma lui lo spettacolo della tecnologia, mercoledì scorso, l’ha messo in scena in Cina, a Hong Kong. E il baricentro dei suoi interessi si sposta sempre più verso l’Asia dove le tecnologie digitali, a cominciare dall’intelligenza artificiale, progrediscono con una rapidità impressionante.
Quanto, poi, al campo dei «quantum computers», quelli di nuova generazione basati sui principi della meccanica quantistica che utilizzano particelle microscopiche come i fotoni anziché il sistema binario dei bit tradizionali e che, in teoria, potrebbero diventare cento milioni di volte più veloci dei sistemi elettronici attuali, la Cina ha fatto passi da gigante. Ha appena effettuato la prima trasmissione quantistica da un satellite e qualche giorno fa ha presentato un impianto sperimentale di nuova generazione: la Hafei Machine, considerata dai tecnici all’avanguardia. L’Europa, qui, sta ancora muovendo i primi passi, mentre gli Usa ci sono con Google e Ibm che, però, non investono massicciamente come fa la Cina: questi gruppi non sono ancora certi delle possibilità concrete della nuova tecnologie e delle relative prospettive di business.
Quanto al tema che avrà in futuro il maggior impatto sugli assetti economici, sociali e anche politici di tutti i Paesi avanzati - le conseguenze dell’automazione galoppante e dello sviluppo dell’intelligenza artificiale sul mondo del lavoro - archiviata la sortita di Bill Gates («dobbiamo tassare i robot») come una provocazione, una ricetta inapplicabile, oggi tocca a un imprenditore cinese, Jack Ma, bussare alla porta di decine di governi del mondo: va ad avvertirli della necessità di affrontare per tempo con strumenti politici e sociali la sfida della tecnologia, se non vogliono essere travolti. Ancora: l’analisi più lucida e sintetica su rischi e opportunità della rivoluzione dell’intelligenza artificiale l’ha pubblicata, a fine giugno sul «New York Times», Kai-Fu Lee, scienziato e imprenditore cinese che ha studiato nelle università americane, ha lavorato per Microsoft e Google, ma ora ha basato le sue attività a Pechino.
Per anni si è discusso del rischio che la tecnocrazia autoritaria della Cinapotesse diventare un modello attraente per i Paesi emergenti che fin qui hanno guardato soprattutto alle liberaldemocrazie dell’Occidente, ora indebolite da economie che non crescono più a ritmi sostenuti e dal diffondersi dei populismi antisistema. Ma la mancanza di libertà e l’arretratezza di vaste parti del Paese sembravano destinate a non consentire alla Cina aspirazioni di «leadership» tecnologica: una nazione zeppa di ingegneri e fabbriche elettroniche, con grandi capacità imitative ma con pochi talenti creativi.
Oggi per la prima volta si affaccia la possibilità che l’alterazione degli equilibri geopolitici (la Cina che investe massicciamente in Africa, America Latina e ora anche nell’Europa in crisi, a cominciare dalla Grecia) si estenda all’area delle tecnologie più avanzate e sofisticate. Il campo più evidente è quello delle tecnologie per il risparmio energetico e la riduzione dell’inquinamento nel quale Pechino, fino a qualche tempo fa maglia nera di questo settore, sta prendendo la guida della battaglia mondiale contro il «global warming», occupando il vuoto lasciato dal ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima.
Ma le scelte poco lungimiranti di Donald Trump sono solo una parte del problema. Mentre la Cina ha una massa d’urto di investimenti tecnologici ormai molto più ampia, è meno condizionata dalle logiche di profitto di brevissimo periodo e ha tecnocrati che orientano le scelte pensando al futuro, negli Stati Uniti, che pure continuano a poter contare sul grande polmone della Silicon Valley e sui geni delle «start up», il sistema è frenato da molti condizionamenti: la polarizzazione della politica che paralizza da quasi dieci anni il Congresso, l’ultraliberismo della parte più influente della destra Usa che rende problematico ragionare su nuovi ruoli di indirizzo del governo, ma anche lo strapotere delle «lobby» e delle grandi «corporation» americane, pronte a bloccare ogni intervento legislativo non in linea col loro interesse immediato.
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