Tornare ai campi e alle officine, dannare la finanza. Sbaglio pericoloso
La preoccupazione per l’avvitamento dell’economia, non solo italiana, in una spirale recessiva, spinge a mettere in primo piano gli obiettivi di crescita legati alla manifattura, alla produzione di beni materiali, all’agricoltura. In particolare a sinistra, come si può vedere per esempio nell’intervista del responsabile economico del Pd Stefano Fassina al nostro Foglio, questa priorità viene considerata come assoluta, e viene contrapposta a una sorta di demonizzazione dell’economia finanziaria, contrapposta all’economia “reale”. Anche nell’altro campo, analoghe considerazioni di Giulio Tremonti rappresentarono a lungo l’asse culturale dell’azione di governo. D’altra parte il senso comune vede creazione di ricchezza materiale nel lavoro con la vanga e con la chiave inglese, che si svolge “nei campi e nelle officine” vicini a casa, mentre sospetta atavicamente delle misteriose operazioni della finanza, sentita come un’attività improduttiva e parassitaria, specialmente ora che agisce a livello globale secondo logiche e per opera di soggetti incontrollabili e spesso ignoti. Naturalmente Fassina, come Tremonti, sa benissimo che la finanza e l’impresa produttiva sono intimamente legate, che nelle società sviluppate la crescita (anche quella dell’occupazione) è concentrata più nelle attività dei servizi che in quelle industriali e in quelle industriali più che in quelle agricole. Proporre quindi una specie di regressione a una condizione tipica della metà del secolo scorso ha un senso puramente retorico ed esprime un punto di vista semplificatore fino ai limiti della mistificazione. Se, come dice con competenza l’ultimo rapporto della Banca centrale europea, i profitti attesi dalle imprese italiane sono inferiori alla rendita dei titoli di stato a lunga scadenza, vuol dire che i primi sono troppo bassi e i secondi troppo alti, fenomeno che ha le sue radici in una combinazione squilibrata dei fattori produttivi delle imprese e in una scarsa attendibilità del sistema politico, nazionale ed europeo, che garantisce la restituzione del debito pubblico. Se lo stato si finanzia al 6 per ento, le banche si finanziano al 7 e possono offrire credito alle imprese a tassi ancora più alti, il che espone a un crescente rischio di insolvenza le società che esercitano attività produttive. Naturalmente ci sono anche abusi e speculazioni miopi, oligopoli finanziari più o meno occulti, rendite di posizione eccessive, che suscitano proteste il più delle volte fondate. Gli indignados che marciano per le vie di Madrid per contestare il finanziamento straordinario chiesto all’Europa per salvare le banche spagnole e che chiedono di dare invece quel denaro ai disoccupati, come gli Occupy che assediano Wall Street con slogan analoghi, esprimono una sensazione reale e diffusa. Però è evidente che se fallissero le banche spagnole, le prime vittime sarebbero i risparmiatori che nelle banche hanno investito i risparmi, con l’effetto di una ulteriore crescita della disoccupazione già elevatissima.
Il problema vero è quello, tutt’altro che semplice, di rendere attrattivo il finanziamento degli investimenti nel settore produttivo. La globalizzazione dei mercati non è solo finanziaria, c’è una competizione mondiale tra merci e servizi prodotti con costi del lavoro, livelli di protezione ambientale e di libertà contrattuale assai differenti. Questo significa che il prodotto “occidentale”, che sconta ovvie diseconomie nei costi, può reggere solo se incorpora maggiore e migliore tecnolgia, maggiore e migliore qualificazione del lavoro, maggiore e migliore marketing. Altrimenti rischia di cadere nella stagnazione, come accade da un decennio a quella giapponese.
La finanza, per parte sua, cerca profitto il più elevato e il più rapido possibile. Se trova aperte strade diverse da quelle dell’investimento nella produzione le percorre, com’è accaduto in America (e non solo) con la catena di Sant’Antonio dei mutui subprime o in Spagna con la bolla immobiliare. Ora quei mercati alternativi che sembravano promettenti sono scoppiati, mentre resta in piedi quello dei derivati, cioè della scommessa sul default degli stati. L’unico modo per fermare questa pressione speculativa è farla fallire, il che richiede una politica finanziaria dei grandi soggetti mondiali concordata e convergente.
L’altro corno del problema riguarda la redditività degli investimenti nel sistema produttivo. Qui, oltre ai problemi della concorrenza globale su merci e servizi che si è fatta più stringente, ci sono quelli specificamente italiani: il costo superiore dell’energia, un cuneo fiscale e previdenziale elevatissimo, un peso burocratico asfissiante, un sistema contrattuale obsoleto che non premia l’innovazione e la produttività, un meccanismo di formazione professionale ottocentesco, una rete informatica lenta, una giustizia civile che rende inesigibili i crediti, un debito delle Pubbliche amministrazioni verso le imprese che viene pagato con ritardi insopportabili. Su molte di queste condizioni si può agire anche con interventi politici e con una effettiva concertazione tra rappresentanze sociali che si occupino di elevare la competitività delle imprese, che è poi la condizione essenziale per difendere l’occupazione. Un sistema finanziario cui vengano occlusi o limitati gli spazi di azzardo speculativo e un sistema produttivo capace di attirare capitali per la sua maggiore produttività, sono tra loro connessi, come lo sono sempre stati, e non contrapposti.
In particolare in Italia, dove è stata la finanza a creare l’industria già dall’Ottocento, pensare a un divorzio tra i due settori decisivi per la crescita è solo una sciocchezza demagogica.
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