Ma per Boeri, che si rifà ai dati contenuti nel rapporto dell’istituto di previdenza, in Italia «sono tanti i lavori per i quali non si trovano lavoratori alle condizioni che le famiglie possono permettersi nell’assistenza alle persone non autosufficienti, tanti i lavori che gli italiani non vogliono più svolgere». Nel lavoro manuale qualificato, ad esempio, sono impiegati il 36% dei lavoratori stranieri, contro l’8% di quelli italiani. Per questo motivo secondo il presidente dell’Inps «c’è una forte domanda di lavoro immigrato in Italia», spiega riferendosi in particolare ai lavori domestici.
Il problema demografico
Il problema dell’Italia, «molto più vicino nel tempo di quanto si ritenga», è comunque il declino demografico. Ai ritmi attuali infatti secondo l’Inps la popolazione potrebbe ridursi in cinque anni di 300 mila unità, in pratica è come se sparisse la città di Catania. «Dimezzando i flussi migratori - aggiunge Boeri - in cinque anni perderemmo in aggiunta una popolazione equivalente a quella odierna di Torino, appesantendo ancora di più il rapporto tra popolazione in età pensionabile e quella in età lavorativa». Azzerando l’immigrazione, secondo le stime di Eurostat, perderemmo 700 mila persone con meno di 34 anni nell’arco di una legislatura. E’ qui dunque che entra in gioco il problema della stabilità del nostro sistema pensionistico, anche a causa della fuga verso l’estero di più di 100 mila giovani all’anno.
“Tornare indietro sulle pensioni non è possibile”
«E’ difficile trovare un nostro connazionale che non aspiri ad andare in pensione quanto prima», dice Boeri spiegando che i redditi da pensione in Italia sono molto più vicini a quelli che si ottengono dal lavoro che in altri paesi. Da noi infatti in media la pensione vale circa l’85% del reddito da lavoro, mentre in Europa è il 60%. «Non è perciò sorprendente che la riforma pensionistica del 2011 (la legge Fornero, ndr) sia così odiata dagli italiani», visto che ha allontanato per molti l’età a cui si può andare in pensione.
Tornare indietro però, secondo Boeri, non è possibile. «Secondo le nostre stime, quota 100 pura (che è contenuta nel contratto di governo Lega-M5s, ndr) costa fino a 20 miliardi all’anno, quota 100 con 64 anni minimi di età costa fino a 18 miliardi che si riducono a 16 alzando il requisito anagrafico a 65 anni, quota 100 con 64 anni minimi di età e il mantenimento della legislazione vigente costa fino a 8 miliardi». Insomma, spese non indifferenti che per Boeri dovranno essere coperte aumentando il prelievo fiscale su ogni lavoratore, innescando così «un circolo vizioso in cui più tasse riducono l’occupazione e dunque scaricano l’onere di finanziarie le pensioni su di una platea sempre più piccola».
“Non smontare il Reddito di inclusione. Servono altri 6 miliardi”
Il reddito di inclusione (il Rei) per il contrasto alla povertà, introdotto e ampliato dai governi Renzi e Gentiloni e in vigore dallo scorso dicembre, «è diventato in questi giorni uno strumento universale selettivo», in cui non valgono più alcune condizioni per accedere agli aiuti, come il numero dei figli o lo stato di disoccupazione. Il problema del Rei però è che «è sottofinanziato», spiega Boeri. Secondo le stime dell’Inps con 6,2 miliardi aggiuntivi - oltre agli attuali 1,8 impegnati - si potrebbe raggiungere l’80% delle famiglie povere, contro il 29% coperto con le risorse attuali. Per questo motivo l’Inps chiede al nuovo Parlamento e al governo «di non disperdere il lavoro svolto nel mettere in piedi una infrastruttura nazionale capace di raggiungere le famiglie povere».
750 mila lavoratori nella gig economy, solo il 10% sono riders
L’Inps ha infine analizzato la gig economy, quelle nuove forme di lavoro su richiesta, molto spesso legate alle nuove tecnologie (come i riders). Per l’istituto di previdenza in Italia sono circa 750 mila i lavoratori coinvolti in questi lavori, di questi poco più del 10% sono riders. Inoltre il 70% svolge lavoretti come secondo lavoro o durante gli anni di studio e tra questi il grado di soddisfazione del proprio lavoro è «relativamente elevato. Vi sono però anche persone, a volte non più giovanissime - spiega Boeri - che trovano in questi impieghi saltuari l’unica fonte di reddito»: si tratta di un lavoratore su cinque della gig economy.
«Un numero piccolo in termini assoluti (lo 0,85% del totale degli occupati in Italia), ma nondimeno è opportuno tenerne conto», secondo il presidente dell’Inps. Per questo motivo non serve intervenire «con l’accetta. Ci vuole il cesello per non correre il rischio di distruggere il lavoro - aggiunge Boeri - come purtroppo avvenuto nel caso dell’intervento draconiano sui voucher di un anno fa». Solo un terzo dei buoni lavoro usati nel 2016 è stato infatti sostituito da contratti a termine: per la parte restante si è ricorso soprattutto al nero.
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