venerdì 20 luglio 2018

DISCUSSIONE. IN ECONOMIA CI VUOLE PIU' O MENO STATO? G. MAZZETTI, No, la soluzione non è il ritorno dello Stato, L'ESPRESSO, 17 luglio 2018

o storico dell'economia Emanuele Felice evoca sulle pagine dell’Espresso  un intervento dello Stato in economia come pratica salvifica.  

Si tratta però di una fiducia malriposta. 



Se si fa giustamente appello a Keynes per ricordare “la capacità di crescita economica” che caratterizzò il Welfare keynesiano tra il 1945 e il 1975, non bisogna però dimenticare ciò che lo stesso Keynes aveva anticipato (in Prospettive economiche per i nostri nipoti, 1930): le politiche economiche che proponeva sarebbero state efficaci solo per una fase storica. E già noi, suoi nipoti, ci saremmo trovati in una situazione che avrebbe imposto ulteriori cambiamenti sociali rispetto a quelli per i quali lui si era battuto dal 1919 al 1945.

Di quali cambiamenti si sarebbe trattato? Felice sintetizza con grande chiarezza quelli oggettivi: “Avremmo vissuto una golden age dell’economia, con l’instaurarsi della prosperità di massa, che avrebbe consentito di acquisire un livello di benessere per fasce crescenti della popolazione”. 
[[(article) Solo più Stato 
salverà la democrazia]]
Con le parole di Keynes: attuando le politiche che proponeva “avremmo iniziato a risolvere il problema economico. Ma invece di sfociare in un sostanziale appagamento, ciò avrebbe determinato un parallelo crollo (breakdown) soggettivo, facendoci precipitare in una situazione sorprendentemente paurosa (startling)”. 

Consapevole che il modo di ragionare prevalente, per il quale un’evoluzione positiva, invece di permanere invariata, tende a rovesciarsi in una realtà negativa è inconcepibile, Keynes espose le ragioni di questa previsione apparentemente ambivalente. Con un approccio darwiniano al problema, sottolineò che le facoltà relazionali che abbiamo sviluppato nel corso della storia sono state forgiate nella “lotta per la sussistenza”, che nel mondo moderno si esprime nella forma più evoluta del problema economico. 

La soluzione di questo problema avrebbe svuotato gli individui delle preesistenti capacità, lasciandoli completamente impotenti e subordinando ogni ulteriore sviluppo a profondi cambiamenti culturali, per i quali sarebbe stata necessaria l’acquisizione di nuove facoltà individuali e relazionali.

La parte di storia che manca nella ricostruzione di Felice è che, se è indubbiamente vero che la previsione di Keynes si è puntualmente avverata, con le conquiste materiali di cui abbiamo goduto, è però altrettanto vero che la crisi che lui aveva anticipato è effettivamente piombata su di noi.

A metà anni settanta le politiche keynesiane hanno, infatti, cominciato ad incappare in svolgimenti contraddittori. La disoccupazione, che per trent’anni era stata sempre al di sotto del 3% - spingendo gli economisti a gridare al “miracolo!” - cominciò a crescere e gli interventi, in Inghilterra di Wilson (1975)e in Italia del governo Moro (1977), non sortirono gli effetti previsti. Per un quinquennio ci si barcamenò in una ripetizione più a meno canonica di interventi di Welfare, ma le cose non migliorarono, con l’instaurarsi di uno stato confusionale generale sul “che fare?”.

Non va dimenticato che nel 1980, prima del passaggio di mano dell’egemonia ai neoliberisti, il Welfare aveva raggiunto l’apogeo, appunto perché il quadro economico era diventato quello anticipato da Keynes e richiamato da Felice. In Gran Bretagna poco meno di un terzo della forza lavoro era occupata dalla pubblica amministrazione, in Francia addirittura il 40%, in Germania e Italia un quarto. La spesa pubblica, se si escludono gli Stati Uniti, aveva raggiunto mediamente il 50% circa dell’ammontare del PIL, garantendo una soddisfazione dei bisogni e diritti sociali inimmaginabili appena trent’anni prima. 

Ma i keynesiani, avendo rimosso le anticipazioni dello stesso Keynes, sull’efficacia transeunte delle politiche che aveva proposto, pensavano invece di disporre della soluzione universalmente valida ai problemi economici, e continuarono a battere pedissequamente la strada che aveva garantito il “miracolo economico”. Le loro ragioni cominciarono ben presto a mostrare tutta la loro incongruenza, tanto più che frequentemente essi stessi scivolavano, più o meno consapevolmente, sulle posizioni culturali degli avversari (delle quali l’impossibilità di godere di un “pasto gratuito” rappresenta il nucleo).

Quando, a inizio anni ottanta, le politiche keynesiane furono abbandonate, non si trattò dunque di un evento arbitrario, di una prevaricazione culturale. La società, appunto perché si riproduce sempre su una base culturale specifica, non tollera “vuoti culturali” e l’incapacità di trovare una soluzione ai problemi che avevano investito il keynesismo determinò il recedere della consistenza di quelle politiche, creando un vuoto che fu facilmente riempito dai conservatori, i quali sostennero che il keynesismo era sempre stato il negativo che mostrava di essere in quel momento storico. 

In fondo l’operazione che Felice ci sollecita a fare non è molto diversa da quella che a suo tempo fecero i conservatori. Quelli si batterono per ripescare il liberismo, noi dovremmo, secondo lui, riesumare il comportamento che aveva garantito uno sviluppo nella fase storica precedente per porre rimedio ai disastri delle politiche economiche seguite dagli anni ottanta ad oggi. 

Se oggi l’ideologia neoliberista “se la passa male”, come giustamente sostiene Felice, da metà anni settanta a passarsela male era stato il keynesismo, aprendo uno spazio agli avversari di quel pensiero. Ma che questa riesumazione di pratiche valide per la fase storica precedente, nel nostro caso “il ritorno alla valorizzazione del ruolo dello stato come alternativa al mercato”, non possa mai mediare un nuovo sviluppo è dimostrato proprio dagli esiti della restaurazione neoliberista, osannato come “la fine della storia”, ma naufragata nel ripetersi oggi degli aspetti peggiori degli eventi della prima parte del Novecento.

Se i pochi critici della paccottiglia culturale attualmente dominante vogliono veramente incidere sulla realtà rovesciandola in un positivo, non possono limitarsi ad evocare una ripetizione delle pratiche valide nei bei tempi andati. 

Il problema che ci troviamo di fronte fu, infatti, individuato da Keynes con grande chiarezza: lo sviluppo della capacità di risolvere il problema economico sarebbe sfociato in una crescente difficoltà di sostituire il lavoro risparmiato con l’innovazione tecnica, appunto perché il lavoro salariato non è un rapporto coerente col regredire della necessità economica. 

La sua ricetta per noi non fu quella di far affidamento sull’intervento dello stato per risolvere il problema della disoccupazione crescente, bensì quello di “fare in modo che tutto il lavoro che deve ancora essere svolto venga redistribuito quanto più ampiamente possibile. Turni di tre ore e settimane lavorative di quindici ore, dovrebbero bastarci”. 

E’ ovvio che, per procedere coerentemente in questa direzione, dobbiamo imparare a capire che cosa sta succedendo al nostro modo di vita, invece di tranquillizzarci pretendendo di sapere già “che fare?”.

*L'autore di questa lettera, ex docente di economia, è direttore del  Centro Studi e Iniziative per la redistribuzione del lavoro

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