domenica 7 ottobre 2012

STORIA DEL LAVORO. BALDISSARA L. Una storia del lavoro per il futuro, IL MANIFESTO, 4 ottobre 2012


Alla vigilia dell'assemblea costitutiva della Società italiana di storia del lavoro, un convegno oggi a Milano su questo tema. Anticipiamo una relazione

Nel passaggio tra XX e XXI secolo da più voci è stata dichiarata la crisi della categoria lavoro, quando non la fine del lavoro tout court. Sul piano teorico, tale crisi è stata declinata, da un lato, nei termini materiali di eclissi del lavoro nelle forme assunte all'alba della rivoluzione industriale e dell'espansione capitalistica, risolvendosi nella presa d'atto della disintegrazione del lavoro nei lavori; d'altro lato, nei termini concettuali della conseguente impossibilità di una visione complessiva sul terreno analitico, ma anche dell'obsolescenza del lavoro come risorsa del discorso politico (e sindacale) e dell'impraticabilità di una ideologia che al lavoro ancora assegni funzioni di emancipazione sociale, realizzazione individuale, liberazione dal bisogno. Si è così rinverdita una prospettiva sul lavoro in termini prevalentemente di nuova alienazione.
Anche sul piano storiografico negli anni '90 si è preso atto di un ripiegamento negli studi. Secondo Stefano Musso non si trattava tanto di una impasse di orientamento, quanto di un forte calo d'interesse collegato a una ciclicità dell'attenzione per la classe operaia alimentata dal variare della congiuntura politica e sociale. Supportavano questa conclusione i pareri tra gli altri di Jurgen Kocka, che, in riferimento al caso tedesco, ha indicato nell'89 la caduta d'interesse per il movimento operaio come oggetto di studio; e di Marcel van der Linden, che descriveva una Labour history «obbligata sulla difensiva» a causa del collasso del socialismo reale e del declino della centralità del lavoro nell'epoca postindustriale. Queste considerazioni confermano il dinamismo del nesso passato/presente nella definizione delle categorie e degli indirizzi di ricerca della storiografia. Ma inducono anche a osservare che la storia del lavoro è un settore di studi dai confini incerti, continuamente ridefiniti in relazione al clima politico-culturale e alla configurazione dell'intreccio tra ambiti d'indagine affini ma diversi (la storia del movimento operaio, dell'impresa, del sindacato, dell'economia). (...)
Della possibilità di promuovere una «storia del lavoro» in Italia si inizia a discutere tra gli anni '30 e i '40. Anche allora le date non sono casuali, è difficile infatti non intravvedere i nessi con il fitto dibattito sul corporativismo. Non a caso il primo tentativo di redigere una storia del lavoro è affidato al coordinamento di Riccardo Del Giudice, allievo di Gentile e collaboratore di Bottai, impegnato attivamente nel sindacalismo fascista, docente di Diritto del lavoro alla Sapienza di Roma, sottosegretario all'Educazione nazionale tra il 1939 e il 1943. Del Giudice propone di organizzare la Storia del lavoro in Italia ricostruendo la vita dei lavoratori secondo l'ordine economico (retribuzioni), giuridico (la disciplina dei rapporti di lavoro), politico (la posizione dei lavoratori nell'organizzazione dello Stato), sociale (condizioni di vita, inurbamento, reclutamento), morale e ideologico (cultura, mentalità, dottrina). Arrestato nel 1944, Del Giudice, che tornerà alla docenza universitaria negli anni '50, è sostituito da Amintore Fanfani nel coordinamento della Storia del lavoro, edita da Giuffré; incaricato di un volume sulla storia del lavoro in epoca contemporanea, non lo porterà a termine, né verrà sostituito da alcuno. Non fa mancare invece la sua firma nella collana Luigi Dal Pane, allievo di Gustavo del Vecchio e coetaneo di Del Giudice, comunista praticamente dalla nascita del partito, studioso di Labriola, docente di storia economica dal 1933. Nella sua prolusione al corso tenuto all'università di Perugia, Dal Pane nel 1941 propone «la storia del lavoro come una storia speciale», capace però di ripensare la storia generale da una prospettiva monografica.
La storia del lavoro nasce dunque come branca della storia economica, secondo una concezione che intende il lavoro come la «applicazione diretta delle facoltà umane alla produzione della ricchezza». Dunque, «fare la storia del lavoro significa fare la storia dei lavoratori». Si viene così definendo un canone metodologico che muove dalla tessitura economica della società, dalle forme di produzione e scambio, dalla consistenza delle classi e dei ceti sociali, per giungere a trattare altri aspetti, in primis le condizioni e il tenore di vita dei lavoratori. In un discorso tenuto al liceo classico di Faenza, Dal Pane nel '67 sarebbe tornato a ragionare della definizione della storia del lavoro. Richiamando la dialettica dei tempi di Braudel e sollecitando il superamento della dicotomia tra storia economico-giuridica e storia etico-politica, Dal Pane afferma che «per comprendere tutte le attività umane sociali dobbiamo allargare il concetto di lavoro oltre gli stretti confini della produzione dei beni materiali fino a comprendervi la produzione in un senso più vasto in modo che venga ad assimilarsi a quello di praxis, che elimina la volgare opposizione di pratica e di teoria ed implica lo sviluppo rispettivamente proporzionato e proporzionale delle attitudini mentali e delle attitudini operative». In questa prospettiva, ogni storia è storia del lavoro.
Fino al tornante degli anni '70, questo approccio produrrà molte ricerche e contributi, in primo luogo sulle campagne, tema che appare invece quasi abbandonato nel decennio successivo. Dal Pane e i suoi allievi, riuniti nell'Istituto di storia economica e sociale dell'università di Bologna, praticheranno dunque una storia economico-sociale su un territorio di confine, prendendo a prestito categorie dalla sociologia e dalla storia economica e cercando di impiantarle in una nascente storiografia sociale che interpreta in modo originale le pagine del Bloch storico delle campagne francesi medioevali. Ma questo orientamento si sviluppa in un ambiente culturale ostile, dominato da un impianto etico-politico che in ambito storiografico si traduce nell'attenzione prioritaria per i soggetti attivi della politica (il partito e lo stato) e nello studio del conflitto sociale per ciò che rivela di funzionale alla politica del partito (il sindacato e le fasi alte delle lotte sociali); solo marginalmente l'attenzione si rivolge alle concrete condizioni di lavoro. Così, negli anni '50, Dal Pane può venire criticato da Arfè per il suo sociologismo e Accornero, oggi tra i sostenitori della fine dell'ideologia del lavoro, può accusare di populismo alcuni dei più interessanti autori della sociologia francese, da Georges Friedmann, capostipite della sociologia del lavoro, fine analista delle culture del progresso economico e dell'industrialismo, a Simone Weil, accomunati dall'addebito mosso loro di aver spostato gli effetti del macchinismo sul piano umano.
Negli anni '70 la matrice etico-politica resta la bussola che orienta l'interesse operaistico per l'organizzazione del lavoro e la centralità della fabbrica. Tuttavia, l'attenzione prioritaria ed esclusiva per la classe operaia sollecita un maggiore interesse per le forme concrete del lavoro operaio. E quando tale interesse incontra le pagine di storici quali Hobsbawm e Thompson, attenti a rintracciare le matrici culturali degli atteggiamenti politici e sociali delle classi popolari, le interrogazioni rivolte al passato iniziano rapidamente a mutare. Lo dimostrano i dibattiti del decennio successivo, quando due questioni tendono ad attirare lo sforzo analitico e concettuale degli studiosi: le modalità di formazione della classe operaia e i fattori di frammentazione occupazionale del lavoro operaio.
Di fatto, questa stagione di studi approda alla messa in discussione non solo della classe operaia come classe generale, ma dell'esistenza stessa della classe operaia, sgranata in un ventaglio di mansioni - e di attitudini culturali e politiche che ne discendono - tali da rendere impossibile una ricomposizione unitaria. E se non esiste più la classe operaia, non può sopravviverne l'identità. Alla fabbrica si guarda ora come a una comunità, intorno a cui si stringono relazioni sociali, rapporti con la campagna circostante, strategie familiari, movimenti migratori, precarietà occupazionali. Di sfuggita si noterà come questa storiografia - di cui va sottolineata su altro piano la ricchezza analitica, in reazione alle rigidità già richiamate - si sviluppava nel radicale passaggio di fase tra anni '70 e '80, segnati da una sconfitta su scala globale del movimento operaio (punteggiata dalle lotte degli operai Fiat nel 1980, dei controllori di volo statunitensi nel 1981, dei minatori britannici nel 1984).

Due interrogativi
È in questo habitat che vede la luce la prima Storia del lavoro in epoca contemporanea, apparsa nel 2002. In essa Musso organizza la vasta storiografia sul movimento operaio e sindacale e intreccia i risultati degli studi di labour history e business history, ripercorrendo il divenire della società industriale, fattore principale del mutamento sociale in età contemporanea. A differenza di Dal Pane e dei suoi allievi, che dedicavano ampio spazio alle campagne, quella di Musso è quasi esclusivamente una storia del mondo industriale, a sottolineare il declino del mondo rurale ma anche a delineare un modo di intendere il termine «lavoro», improntato al paradigma del lavoro industriale. Musso propone dunque una storia del lavoro in una duplice prospettiva: quella del mutamento sociale e quella del conflitto degli interessi (sindacato e stato). Ne esce un quadro dove si tentano di cogliere i nessi dei processi di trasformazione degli assetti sociali e produttivi con le forme della mediazione dei conflitti di lavoro, a tratti osservati con la malinconia propria del rilievo critico circa la cronica assenza in Italia di un solido sistema di regole delle relazioni industriali.
Giunti all'oggi, alla fondazione di una Società italiana di storia del lavoro, due interrogativi mi paiono ineludibili: possiamo pensare a una storiografia del lavoro dotata di un proprio specifico campo di studio e di un proprio strumentario metodologico? E, posto che a questa domanda si risponda affermativamente, come si può immaginare una storia del lavoro non scientificamente autarchica, non preda di uno sterile specialismo, una storia del lavoro tale da contribuire alla messa a fuoco delle questioni chiave dell'epoca contemporanea e alla comprensione dei problemi del tempo presente? Non potendo fornire vere risposte, che vengono solo dal dibattito e dalla ricerca empirica, azzarderò tre conclusioni in forma assertiva circa ciò che considero oggi necessario per assumere il lavoro come problema storico.
In primo luogo, ritengo particolarmente proficuo praticare una storia del concetto di lavoro. Come già per molte categorie della politica e del diritto che siamo soliti impiegare (democrazia, cittadinanza, nazione), credo che la questione del lavoro in epoca contemporanea vada riconsiderata genealogicamente a partire dall'Illuminismo, per ripercorrere i tragitti dei concetti che hanno reso intellegibile i processi di mutamento e coesione della società umana, per riconsiderare i modi di leggere la trasformazione della realtà sociale, l'affermazione di una società segmentata in classi. Dalla «rivoluzione» illuministica weberianamente intesa, sgorgano infatti due filoni di lungo periodo nel modo di leggere il ruolo del lavoro nella società del capitalismo industriale: quello che amplifica i fattori di asservimento dell'uomo (e gli interpreti del paradigma della fine del lavoro si innestano in questo filone), e quello che enfatizza il valore del lavoro per la realizzazione umana e quale fondamento del legame sociale. Nel '900 settori teorici e politici altrimenti antagonistici - dal cattolicesimo sociale al marxismo, all'umanesimo liberale - verranno variamente accomunati in questa prospettiva utopica del lavoro, che tiene insieme una «antropologia» (l'alienazione e la realizzazione di sé sono entrambe dimensioni del lavoro), una «garanzia» (l'integrazione e la coesione sociale), una «politica» (l'emancipazione e la liberazione dall'alienazione). Ritengo dunque che oltre la ricerca sul campo, gli storici possano frequentare proficuamente la storia dei concetti, e segnatamente la storia del concetto di lavoro, per ricostruire i contesti e i nessi tra i processi materiali in corso e le urgenze concettualizzanti, per ragionare su come una determinata visione del lavoro abbia condizionato pratiche politiche e sindacali, ma abbia anche orientato approcci analitici e teorici, indirizzi di ricerca e interpretazioni storiografiche.
In secondo luogo, è auspicabile l'avvio di una stagione di ricerche sugli aspetti materiali dell'organizzazione del lavoro, sugli strumenti e le forme della contrattazione, per una storia del lavoro che nel suo farsi muova dalle concrete condizioni di lavoro. Una storia che non dia per scontata la dimensione del lavoro ma la indaghi orizzontalmente (orari e tempi, modalità, mansioni, qualifiche) e verticalmente (nel suo mutare nel corso del tempo). Una storia che non presuma che se ci sono i lavoratori c'è anche il lavoro, che sappia cogliere l'uomo al lavoro e nel lavoro. Si rilegga a tal fine la lezione di metodo che Engels ha offerto nella Situazione della classe operaia in Inghilterra (1845, anno del suo incontro con Marx). La messa a fuoco di forme ed effetti dell'innovazione produttiva, l'analisi delle caratteristiche della formazione della classe operaia, l'attenzione partecipe verso il mutamento delle condizioni di vita di questi lavoratori, l'esame della condizione della donna e delle trasformazioni delle relazioni tra i sessi e nelle famiglie in seguito ai mutamenti indotti dall'industrializzazione: da questa pur schematica ricapitolazione dei temi engelsiani si delinea una bussola per orientarsi negli studi storici, fondendo nell'analisi il sociale, l'economico, il politico. Si rilegga quindi Engels, e si rileggano i lavori degli storici - Simonetta Ortaggi, ad esempio, ma anche Duccio Bigazzi - che hanno praticato una storia del lavoro ancorata alla concretezza delle condizioni di vita e lavoro, dei rapporti di produzione, delle forme della mobilitazione, delle modalità della riorganizzazione del lavoro e degli effetti che essa induce nella composizione di classe, oltre che nella reazione sociale che innesca. Senza dimenticare gli aspetti soggettivi, culturali ed identitari, dell'antagonismo sociale, senza incedere nelle facili scorciatoie discorsive del culturalismo di maniera, ma sempre mostrando come dimensione sociale e dimensione soggettiva si riflettano l'una nell'altra (appunto, à la Engels).

I «fatti concreti»In terzo luogo, ritengo che entro questo quadro sia quanto mai opportuno rivolgere una attenzione particolare ai cosiddetti «saperi speciali» che elaborano discorsi sul lavoro. Un esempio originale è rappresentato dal contributo di Germano Maifreda sul disciplinamento del lavoro di fabbrica per ottenere la docilità dei lavoratori (La disciplina del lavoro, 2007, con echi foucaultiani, ma senza dubbio condizionato dagli studi di Bigazzi e del primo Sapelli). Ricca di potenziali sviluppi potrebbe configurarsi l'attenzione per i «fatti concreti», i dati della vita di ogni giorno cui nessuno fa più caso, come ebbe a dire Braudel, che potrebbero trovare applicazione pratica in ricerche di storia dei concreti modi di lavoro. Come evolvono le forme del lavoro concreto, in atto? Come si sviluppa la socialità dei/tra i lavoratori? Come si intrecciano le identità multiple dei lavoratori?
Ma tra i saperi speciali uno spazio a sé lo merita la cultura giuridica. Il diritto del lavoro può infatti rappresentare una via d'accesso alla questione della legittimazione del ruolo del lavoro sul terreno della democrazia e della definizione degli spazi istituzionali del conflitto sociale. A partire dall'esperienza dei giuslavoristi di Weimar, che non assumevano più il cittadino solo nella sua individualità, ma anche nella sua relazione con la società, il diritto si preoccupa delle condizioni concrete di vita e lavoro degli individui. Lo sguardo sul rapporto di lavoro è filtrato da lenti sociologiche, inteso come una forma di relazione subordinata, e non più in termini civilistici, come contratto fra eguali. Di qui discende la normativa di tutela dei lavoratori, sia in forma legislativa che nelle pratiche di contrattazione collettiva, che ha condotto a una progressiva giuridificazione del rapporto di lavoro, a un disciplinamento - oggi rimesso in discussione - del potere di comando del datore di lavoro.

Le culture giuridiche
Questo processo di giuridificazione rappresenta un terreno di prioritario interesse per gli studi storici: nella ricostruzione delle culture giuridiche e del dibattito tra giuristi, nel profilo delle culture istituzionali e sociologiche degli operatori del diritto (avvocati e magistrati), dei sindacalisti e degli imprenditori, nell'indagine delle rappresentazioni del rapporto di lavoro, nella definizione di una cultura dei diritti nei lavoratori, è difatti possibile indagare le culture della democrazia sub specie del giuslavorismo e dell'elaborazione tra i lavoratori della consapevolezza dei propri diritti di cittadinanza.
Dalla prospettiva del lavoro, ciò significa interrogare i rapporti tra politica e diritto in relazione ai mutamenti delle funzioni dello Stato nella società di massa, condurre la dimensione statale entro la dimensione sociale e dei rapporti di classe, così da mettere in discussione l'idea tradizionale della sua neutralità e apoliticità e da recuperare quel disegno di democrazia sostanziale su cui poggiava la concezione dell'ordinamento del lavoro alla base della Costituzione del 1948.

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