Cai Shi Kou era un quartiere di piccoli edifici in mattone. Ora è un cumulo di macerie. Molti sono rimasti senza tetto e se ne sono andati. Altri resistono asserragliati dentro le loro quattro mura nel costante timore che allo spuntare del giorno la ruspa arrivi anche per loro.
Accade in una delle tante aree di Pechino in cui imperversa il morbo della requisizione forzata. Che, a leggere l'ultimo rapporto di Amnesty International, in Cina ha raggiunto le dimensioni di una vera epidemia. Senza preavviso, senza consultazione, senza indennizzo, rischi di perdere la casa dove abiti o la terra che coltivi. Basta che l'autorità locale decida che in quel posto è meglio mettere una fabbrica, un grande magazzino, un albergo.
A volte i funzionari pubblici agiscono in accordo con i costruttori privati, disposti a pagare loro sostanziose tangenti. Altre volte il sopruso ai danni del povero cittadino indifeso è la scorciatoia per realizzare gli obiettivi economici fissati dai pianificatori centrali. "Il partito -spiega Nicola Duckworth, che lavora per Amnesty a Hong Kong- promuove i funzionari che a ogni costo contribuiscono alla crescita produttiva. Espropriando la terra e mettendola in vendita gli amministratori locali si rifanno dei debiti contratti per lanciare iniziative di stimolo nei momenti di difficoltà economica".
Naturalmente può capitare che le due motivazioni coincidano, e il piccolo ras di quartiere o di distretto si dimostri tanto bravo nell'eseguire il compito assegnatogli dai superiori, quanto furbo nel trarne un vantaggio personale.
Lo scudo legale per comportarsi in quel modo è solido: malgrado tanti passi in avanti verso il mercato, l'iniziativa privata e la tutela dei diritti personali, nella Repubblica popolare la proprietà dei terreni e delle case è tuttora una prerogativa statale. Quello di cui il presunto proprietario gode è in realtà una sorta di usufrutto temporaneo.
La questione è controversa, e molti avvocati sostengono che in realtà le leggi vigenti sono già sufficienti a tutelare la proprietà individuale. Di fatto le requisizioni vanno avanti a spron battuto, e secondo alcuni studiosi cinesi producono un terzo degli introiti di cui godono le amministrazioni locali.
Assieme agli espropri, aumentano le proteste. Anche chi non avrebbe problemi a trasferirsi altrove, è spinto ad opporsi dalla misura ridicola dei compensi che vengono proposti. Al contadino non viene pagato il valore commerciale del fondo che gli viene sottratto, ma una somma calcolata in rapporto alla redditività agricola. Di fatto vuol dire spesso il 5% del prezzo che il successivo acquirente pagherà allo Stato o al Comune.
Abusi simili scatenano sempre più frequenti proteste popolari, che vengono il più delle volte represse violentemente. Amnesty si è occupata direttamente di una quarantina di episodi avvenuti a partire dal 2009. Ma il numero è molto più elevato. Fonti cinesi parlano di decine di migliaia di vertenze, che molto spesso si tramutano in manifestazioni di piazza.
A volte la protesta paga. Caso emblematico quello di Wukan, un villaggio nella provincia del Guandong. La morte di un dimostrante picchiato dagli agenti in cella di sicurezza ha scatenato una rivolta così intensa da costringere alla rimozione dei boss di partito locali. Sostituiti da elementi stimati dalla popolazione locale, attraverso un raro caso di libere elezioni. A un anno di distanza però sono stati restituiti solo 600 dei 3200 ettari di terra arbitrariamente strappati agli abitanti. E qualcuno a Wukan comincia a temere che passata la tempesta, si torni pian piano allo status quo.
A Pechino intanto, nel quartiere di Cai Shi Kou, i pochi residenti che ostinatamente rifiutano di partire, ricevono ogni tanto la visita di brutti ceffi armati di bastone. Manovali della violenza e dell'intimidazione al soldo di palazzinari impazienti di mettere le mani su quel pezzo di città. Gente potente. Che alza la voce se la polizia si permette di arrestare i suoi gorilla.
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