Se un tempo quella parola neanche veniva pronunciata, oggi di mafia se ne parla tanto e a volte pure se ne straparla. Con superficialità, approssimazione, la si racconta attraverso immagini scontate, con spot e slogan che mescolano mezze verità e mezze falsità, una diffusione grossolana di informazioni avvolta in un'insopportabile retorica. Ma c'è chi la mafia la studia per davvero. Con passione e fatica, con metodo, collegando vicende apparentemente lontane e inseguendo indizi storici e contemporanei, scavando in profondità e soprattutto con libertà di pensiero.
Ecco perché abbiamo voluto dedicare una serie del nostro blog alle tesi di laurea sui fenomeni mafiosi, ricerche di una trentina di studenti di tre Università italiane (la Statale di Milano, corso del professore Nando dalla Chiesa; quella di Bologna, corso della professoressa Stefania Pellegrini; quella di Palermo, corso della professoressa Alessandra Dino) che ci hanno offerto estratti dei loro elaborati.
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Mafia e capitalismo per lungo tempo sono stati considerati in antitesi. Di più: antagonisti. Laddove la prima era portatrice di arretratezza, sottosviluppo e degrado etico e civile, il secondo invece le era opposto come unica via per consentire l’uscita di intere regioni del Meridione d’Italia da quello stato di minorità materiale e morale a cui la mafia le condannava.
Immagine tratta dal sito "Repubblica.it"
Eppure l’economia capitalista come antidoto naturale al potere mafioso e alla sua ramificazione nella società si è rivelata una grande illusione: sin dagli albori, sin dall’omicidio di quell’Emanuele Notarbartolo già sindaco di Palermo deciso a metter fine alle malversazioni del Banco di Sicilia, Mafia e Capitalismo sono stati segreti amanti.
La grande riconfigurazione in chiave “liquida” (per usare le parole di Bauman) del Capitalismo, iniziata con la Thatcher e Reagan, ha prodotto poi una contaminazione tra la cosiddetta «mentalità mafiosa», che come sosteneva Falcone non è necessario essere dei criminali per possederla, e lo «spirito del Capitalismo» che probabilmente nemmeno i due “amanti” si aspettavano.
Paradossalmente, i valori costitutivi della modernizzazione economica hanno sì trasformato il mafioso, che ha assimilato il consumismo e si è adeguato ai canoni della nuova modernità, ma al tempo stesso gli hanno dato nuovi strumenti per moltiplicare il proprio impatto sulla società, sull’economia e sulla politica. Questa fortuita o probabilmente naturale contaminazione ha permesso alle organizzazioni mafiose di modellare se stesse su un nuovo assetto organizzativo che le ha rese più adatte ad affrontare le sfide della modernità.
La rivoluzione tecnologica, l’era di Internet, della comunicazione istantanea, la strutturazione di legami multipli e di appartenenza complessi tramite i social networks (in particolare Facebook) hanno permesso sì di accorciare le distanze, garantendo una relativa facilità di accesso a nuove cerchie sociali, ma al tempo stesso hanno prodotto una grande solitudine dell’uomo contemporaneo.
Bombardato di impulsi da ogni parte, continuamente monitorato nella sua attività digitale per soddisfare ogni suo desiderio e bisogno, l’individuo perde quella capacità critica necessaria che riusciva a sviluppare all’interno di identità collettive come erano i grandi partiti di massa, che offrivano loro sicure ancore di salvezza contro quella che Max Weber definiva «l’irrazionalità etica del mondo». Questa solitudine è al tempo stesso causa e conseguenza dello svuotamento dello spazio pubblico e delle arene democratiche. La paura, soprattutto per il futuro, diventa l’elemento centrale della nuova società.
Gli Stati, formalmente detentori del monopolio della «violenza legittima», sono oramai incapaci di rispondere alle continue sfide che il processo di globalizzazione connesso alla nuova modernità pone di fronte a loro e stanno progressivamente regredendo a meri apparati repressivi del capitalismo finanziario che domina le nuove reti digitali e analogiche della ricchezza. L’enfasi sulle politiche della sicurezza è la conseguenza più tangibile: con la scusa di rispondere alla paura dell’uomo del XXI secolo, vengono rimodellati vecchi e superati riferimenti culturali all’identità nazionale, alla difesa del territorio e della tradizione, fomentando l’odio verso i «devianti» dalla costruzione culturale dominante (quella dell’uomo occidentale bianco, buon padre di famiglia, in carriera e in prima fila a messa la domenica): lo straniero diventa il capro espiatorio delle inefficienze della società.
In questa schizofrenia socio-economica e culturale generale le organizzazioni criminali di stampo mafioso si trovano a meraviglia. Perfettamente adeguatesi al nuovo paradigma, lo hanno piegato ai propri interessi: l’economia dei servizi, post-industriale, dominata dalla finanza, ha permesso loro di rafforzarsi.
Non solo, il progressivo svuotamento dello spazio pubblico e delle sue componenti accessorie (a partire dal welfare state) ha permesso di rafforzare la propria legittimità sociale. Di fronte all’incapacità dello Stato, il pragmatismo mafioso nell’amministrazione della giustizia, nell’assicurazione dei legittimi diritti sotto forma di favori, nella creazione di reti di solidarietà a livello di organizzazione, nel procacciare posti di lavoro a tempo indeterminato, è la chiave della popolarità dell’organizzazione mafiosa in diversi contesti sociali locali. Lungi da essere un antidoto alla loro presenza, la nuova modernità ha moltiplicato in maniera esponenziale il peso delle organizzazioni di stampo mafioso sia nella società che nell’economia legale. In particolare, in quest’ultimo contesto, al di là di appalti pubblici e riciclaggio in attività legali, le imprese mafiose si sono dimostrate maggiormente efficienti nell’offrire servizi legali (si pensi allo smaltimento rifiuti o al recupero crediti).
Inoltre, in una società dominata dall’incertezza ambientale, dove tutto è in perenne cambiamento e ogni conquista è fragile e precaria, i legami familiari (o meglio, il potenziale di capitale sociale che portano in dote) sono quello che fa la differenza nell’affermazione di se stessi: proprio l’individualizzazione spinta della società ha portato a un ripiegamento sulla famiglia in quanto bene primario al centro di una rete di relazioni che, come dimostrano i dati sulla mobilità sociale, permettono ai figli della classe dirigente di ottenere carriere migliori, a parità di merito, di tutti gli altri.
Ecco spiegato perché nella ricerca di Emanuele Ferragina di sei anni fa vi erano tassi di familismo amorale più alti laddove vi era un relativo benessere economico, soprattutto nel Nord Europa, dove come sappiamo le organizzazioni mafiose si sono trapiantate a meraviglia.
Perché alla fine il pericolo maggiore di questa “storia d’amore” finalizzata al Potere e al Profitto è che progressivamente la mentalità mafiosa sta fagocitando lo spirito del Capitalismo, tanto che come ha detto il Presidente del Senato Pietro Grasso il metodo mafioso è sempre più diffuso tra chi “mafioso” formalmente non è. E questo perché il mafioso conserva qualcosa di cui la stragrande maggioranza della collettività è priva: la cultura dell’appartenenza e la fedeltà a valori fondamentali. In un contesto sociale e un periodo storico dove non ci sono più punti di riferimento, loro conservano la propria identità, senza rinunciare alla modernità e, soprattutto, si pongono come unico punto di riferimento certo in una società dove tutto è precario.
L’autorità mafiosa è una certezza, così come la sua efficienza e il suo potere. Diventare «uomo d’onore» in sempre più contesti sociali è l’unico modo per riscattarsi da una vita di stenti e di povertà vissuta ai margini della società. Questa è una tendenza che si è verificata non solo nel Mezzogiorno, culla del fenomeno mafioso, ma anche nel resto d’Italia e d’Europa. La situazione è quindi grave. Quando l’Europa ha intenzione di occuparsene?
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