Il regalo più gettonato in molte famiglie americane è «Google Home» o il suo rivale «Alexa» di Amazon, ovvero un mini-robot domestico che intrattiene grandi e piccoli, risponde ad ogni domanda, prenota ristoranti, controlla altri dispositivi digitali in casa e fa ascoltare le canzoni preferite. Robert Shiller, Nobel per l’Economia 2013, vede nel debutto dei robot casalinghi l’accelerazione inevitabile del processo di «sostituzione del lavoro comune con la tecnologia». Proprio l’espulsione dal mercato del lavoro di operai specializzati a causa delle innovazioni hi-tech è all’origine della più aggressiva delle diseguaglianze: quella che spinge il ceto medio nelle braccia di proteste, populismo e intolleranza. Per riferirsi a costoro Papa Francesco adopera il termine di «scartati» e il presidente Usa Donald J. Trump ha coniato la definizione «i dimenticati» che lo ha portato alla Casa Bianca. È uno dei pochi terreni sui quali Trump concorda con il predecessore Barack Obama, secondo il quale «bisogna studiare come gestire l’impatto della tecnologia sulle diseguaglianze» perché «se l’auto Tesla senza guidatore andrà su strada in America in quello stesso istante circa 4 milioni di camionisti resteranno senza lavoro».
Poiché opporsi allo sviluppo della tecnologie è una scelta perdente, la lotta alle diseguaglianze passa attraverso nuove politiche capaci di tutelare, proteggere e in ultima istanza riqualificare gli «scartati» ed i «dimenticati».
Non è facile perché spesso si tratta di persone con molti anni di lavoro sulle spalle, nel pieno della loro vita produttiva e di conseguenza con molteplici responsabilità sociali e famigliari.
Per Eric Maskin, premio Nobel dell’Economia 2007, gli Stati sono chiamati ad «investire in maniera energica nell’istruzione creativa e nella riqualificazione» degli espulsi dalla catena produttiva, mettendo particolare attenzione sulla necessità di «nuove forme di insegnamento» non più solo per i giovani ma anche per chi ha anche venti anni di professione sulle spalle. L’esempio che porta Maskin è quello del Brasile perché «il governo ha garantito finanziamenti ai poveri a patto che li usassero per pagare ai figli scuole migliori e nell’arco di 15 anni ciò ha portato ad un rafforzamento del mercato del lavoro nazionale».
Ciò che il Brasile ha fatto per i poveri, altri Paesi potrebbero ripeterlo a vantaggio dei propri «dimenticati» e per rendersi conto quanto le soluzioni possano essere a portata di mano basta entrare nella libreria di Amazon al Time Warner Center di Columbus Circle a Manhattan. Ciò che colpisce di più non è tanto la possibilità di acquistare i libri con la app inquadrando la copertina del volume prescelto con la telecamera del proprio smartphone, quanto il fatto che a spiegare alla clientela le nuove frontiere degli acquisti digitali sono dei commessi over-60. Proprio così, uno dei colossi del mondo digitale affida la propria immagine nel cuore di New York a eleganti signori con capelli bianchi, inglese forbito ed una formidabile conoscenza del linguaggio delle app.
Ciò significa possedere una strategia per la riqualificazione degli «scartati» talmente efficiente da consentire di affidargli la sfida delle nuove librerie, che vendono libri e pubblicazioni in carta con metodi innovativi, usando la tecnologia più avanzata. Un altro granello di conoscenza utile ad elaborare nuove teorie contro le diseguaglianze viene dagli economisti Daron Acemoglu del Mit e Pascual Restrepo di Boston University, autori di «Robots and Jobs», il primo studio in cui si documenta dove si trovano e quanti sono i robot industriali attivi negli Stati Uniti.
La mappa dei 233.305 robot sfata molti pregiudizi, a cominciare dal fatto che non sono presenti ovunque perché si concentrano soprattutto negli Stati dove l’industria manifatturiera è più sviluppata, ovvero nel Midwest e nella regione degli Appalachi. Michigan, Ohio e Indiana guidano la classifica - rispettivamente con 28.000, 20.400 e 19.400 robot - mentre nell’intero West ve ne sono appena il 13 per cento del totale. E se Kokomo, Indiana, ne ha ben 35,2 ogni mille operai, in 235 aree metropolitane degli Stati Uniti non si arriva a 2 ogni mille. Insomma, i robot non minacciano l’intero tessuto economico americano, ma solo le manifatture e in alcune regioni specifiche. Ciò significa che politiche regionali di riqualificazione di un particolare settore di manodopera potrebbero rivelarsi più efficaci di misure protezionistiche di portata nazionale ispirate ad approcci risalenti al secolo scorso, basati sulla convinzione che un intero Paese registra in maniera uniforme sul proprio territorio singoli fenomeni economici. Shiller aggiunge che non solo il protezionismo ma anche i tagli fiscali rischiano di essere inefficaci perché non si tratta di «redistribuire la ricchezza quanto di creare nuovi fonti di conoscenza» al fine di reinserire nel mondo del lavoro chi ne è stato espulso. Da qui l’ipotesi di rivoluzionare il sistema di apprendimento con gli atenei destinati a diventare fonte di riqualificazione professionale costante, per ogni età e settore di competenza.
Fa inoltre riflettere che la mappa di Acemoglu e Restrepo coincida con quella degli Stati che hanno determinato il successo di Trump alle ultime presidenziali: lì dove le diseguaglianze non vengono affrontate, alimentano la protesta.
In attesa di sapere se l’America stia davvero iniziando a formulare, dal basso, un pensiero economico contro le diseguaglianze, possono esserci pochi dubbi sul fatto che gli studi di Maskin sulle favelas brasiliane, le riflessioni di Shiller sui robot domestici, i commessi anziani di Amazon a New York e il rapporto di «Robots and Jobs» suggeriscono che qualcosa si sta muovendo per soccorrere i «dimenticati». Al fine di rimettere in moto il volano della prosperità collettiva da cui dipende la felicità degli individui.
Nessun commento:
Posta un commento