La prima tesi è legata al conflitto capitale-stato. Più precisamente «Il capitalismo, infatti, è un modo di essere delle società che non si distrugge nelle crisi, ma evidentemente si trasforma e, una volta trasformato, dà luogo a una nuova cultura capitalistica e a nuovi rapporti tra i capitalisti e lo Stato e tra gli stessi capitalisti». È proprio nel rapporto capitale-Stato la principale differenza tra il modello reaganiano-thacheriano e il modello del new deal.
Questo passaggio è propedeutico per lo sviluppo della seconda tesi relativa al governo della domanda effettiva. Lo squilibrio, la dinamica di struttura, la ricomposizione della domanda (effettiva), gli investimenti sono il tratto distintivo e dinamico dell’economia capitalistica. Le istituzioni preposte al governo della domanda effettiva e della sottesa dinamica di struttura sono cambiate, assieme all’evoluzione dell’organizzazione della produzione e della società. In ordine di tempo sono riconoscibili due modelli di governo della domanda effettiva: il new deal rooseveltiano e il liberismo di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan. Con la crisi delle istituzioni legata al modello neoliberista (2007–8) si ripropone il tema del governo della domanda effettiva; ci troviamo tra un’era economica (finita) e un’altra era (da costruire) con delle istituzioni-modelli (Thatcher-Reagan) consolidati: globalizzazione, integrazione dei mercati finanziari, allargamento della forza lavoro e nuova divisione internazionale del lavoro. L’esito e lo sbocco della crisi delle istituzioni reaganiane non sarà la riproposizione (corretta) delle politiche rooseveltiane del dopo ’29. Sicuramente possono offrire un conforto, ma un conto è aumentare la domanda interna in un’economia chiusa, un altro conto è aumentare la domanda interna in un mercato aperto e integrato.
La terza tesi è legata alla puntualizzazione delle differenze tra mercato e politica economica. Interpretando Leon, può essere rintracciato lo svuotamento della politica economica nel momento esatto in cui le Banche Centrali da strumento di sostegno ai deficit pubblici, via acquisto dei titoli, sono diventate strumento di controllo dell’inflazione. Il divorzio tra Banca Centrale e Tesoro ha un effetto che travalica il divorzio in sé per sé. Il divorzio ha infatti provocato una crescita gigantesca di moneta privata (endogena) che ha finanziato lo sviluppo dei Paesi emergenti. Inoltre, la crescita della produzione ha bloccato l’inflazione che sarebbe stata altrimenti provocata dall’aumento non controllato della stessa moneta privata. Questa moneta è debito che può espandersi se cresce il valore del capitale che gli fa da garanzia («leverage»); ma questo valore cresce finché crescono gli indici dei mercati finanziari, e questi indici, a loro volta, crescono trascinati dalla domanda delle banche che ne hanno bisogno per estendere nuovi prestiti alla clientela, creando nuovo debito e nuovi debitori. L’economia fondata sul «leverage» è una vera trasformazione del capitalismo. Cambia il senso economico di profitto, che una componente fondamentale del reddito. Per Leon, i guadagni che si acquisiscono nel mercato finanziario non si misurano in profitti o interessi; è la singola operazione ad essere centrale e a creare surplus; è il volume manovrato che produce guadagni e non necessariamente profitto, anche se sono qualcosa di più di una rendita. In altra parole, gli «speculatori» si occupano di mercato, non di economia.
L’altra faccia dell’equilibrio
Il libro è diviso in quattro parti autonome che possono essere lette separatamente; insieme offrono uno spaccato della crisi via (1) descrizione dell’ultima crisi, (2) la cecità dei capitalisti, (3) la trasformazione del capitalismo, (4) verso un capitalismo mercantilista. Il pregio del volume è di indagare la crisi non solo come riduzione del Pil, o come la polarizzazione del reddito: l’obiettivo è di svelare cosa si cela dietro queste variabili, in particolare la coppia equilibrio-squilibrio. Leon guarda allo squilibrio come l’altra faccia dell’equilibrio: i due termini si reggono vicendevolmente, perché non sarebbe possibile alcuna nozione di equilibrio, se non ci fosse la possibilità dello squilibrio. Ciò che viene trattato come squilibrio, è in realtà il continuo cambiamento nell’economia, dovuto all’incessante dinamica sia nell’offerta sia nella domanda. Si tratta della cecità degli interpreti del capitalismo, più precisamente dell’impossibilità, connaturata alla loro essenza, di comprendere gli effetti delle loro azioni sull’economia nel suo complesso. Leon sottolinea le incongruità del modello dinamico neoclassico; più precisamente quello di immaginare un Pil sempre uguale a se stesso, una società composta di individui eterogenei che si rinnovano sempre uguali a se stessi, per gusti, per preferenze, capacità potenziali. Alla fine non c’è posto per una crisi endogena. Con un paradosso: gli autori dell’equilibrio neoclassico affidano «l’equilibrio» ad un deus ex machina, cioè al rapporto tra lo Stato e gli operatori, lo shock esogeno forse più rilevante, attribuendo agli operatori (privati) la capacità di conoscere gli esiti macroeconomici delle azioni pubbliche, mentre lo Stato, che pure ne è l’autore, non avrebbe la simmetrica capacità di conoscere gli esiti delle azioni private. In sintesi il tutto non è uguale alla somma delle parti; basterebbe ricordare un noto risultato della stessa analisi neoclassica, ovvero che alla variazione del prezzo di un bene, oltre ad avere effetti sul reddito, si verifica anche un effetto sostituzione, con modificazioni dell’intera economia.Tra debito e speculazione
Con la valigia analitica suggerita da Leon possiamo comprendere meglio la speculazione verso i paesi indebitati dell’eurozona. L’attacco ai paesi indebitati è stato contrastato con forti misure di austerità che, riducendo il reddito nazionale, riducevano anche il gettito tributario e la stessa capacità di ripagare il debito. Una situazione ideale per lo speculatore che, contro la sua azione, non doveva attendersi una svalutazione delle inesistenti monete nazionali, né l’acquisto senza limiti da parte della BCE (che poi avverrà) dei debiti pubblici in difficoltà, né l’insolvenza di qualche Stato che avrebbe messo in pericolo la stessa moneta europea. È la fine della politica monetaria. La Bce ha più volte sottolineato la difficoltà della propria politica monetaria; i tassi di interesse praticati, negativi in termini reali, in realtà erano positivi ed elevati nei paesi membri sotto attacco speculativo, ma bassi e negativi negli altri paesi allo stesso tempo. D’improvviso, la politica monetaria era diventata inefficace.Diversamente da Leon un margine di ottimismo è possibile. Sono proprio le sue riflessioni a suggerirlo. Alla fine anche l’Europa sarà costretta a misurarsi con il problema della domanda effettiva, del lavoro, del capitale e dell’economia reale
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