Miracoli che non furono. O che sono stati qualcos’altro. Qualcosa di meno netto, più sfumato. Periodi di espansione economica, frutto di un concorso di circostanze, alcune esterne e congiunturali, altre da ascrivere alle classi dirigenti locali, mai dotate di bacchetta magica, quindi soggette ad errore. E quando le crisi, implacabili, provocano un brusco risveglio, ci si interroga: perché? Dove abbiamo sbagliato? Irlanda, Spagna, Portogallo, Argentina, solo per citare alcuni casi.
Difficile stabilire un’equa ripartizione delle colpe. Però, ad occhio – e con percentuali oscillanti a seconda delle circostanze – i principali indiziati sono economisti e giornalisti. I primi, per difetto doloso di analisi scientifica. I secondi, per cattivo uso degli strumenti del mestiere. I quali dovrebbero comprendere curiosità insaziabile e spirito critico. Frequentare Buenos Aires a metà degli anni ‘90 era un tutt’uno con l’elogiare la ricetta bizzarra dell’apprendista stregone Domingo Cavallo e della sua convertibilidad, l’insostenibile parità peso-dollaro. Sappiamo com’è finita (meglio di chiunque altro l’ha raccontata Pino Solanas nel docu-film Memoria del saqueo). Ricordo la frustrazione di studiosi seri, come Pablo Gerchunoff e Daniel Muchnik: li accusavano di “remare contro” il presidente del milagro, Carlos Menem.
Il mago spagnolo si chiamava José María Aznar. Crescita gonfiata a base di fondi di coesione Ue e privatizzazioni. E’ sua la ley del suelo che ha alimentato la speculazione provocando una bolla immobiliare esplosa poi in faccia all’ingenuo Zapatero (parlava di un paese “da Champions League”, l’illuso). Nel caso irlandese si sprecarono gli elogi (una “tigre celtica”, che tigre non era). E persino per il depresso Portogallo, risvegliatosi in qualche modo dal torpore dopo l’adesione alla Ue (‘85), si arrivò a parlare di “piccolo miracolo economico”. Magari la prudenza, unita all’uso della ragione, potrebbero evitare in futuro simili abbagli.
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