martedì 9 luglio 2013

NUOVI LAVORI. GIUSEPPE SARCINA, Il lavoro da re-inventare, LA LETTURA, 7 luglio 2013

Il mercato del lavoro è una porta chiusa da una serratura ancora misteriosa. Politici, economisti, imprenditori, sindacalisti di tutta Europa maneggiano un grosso mazzo di chiavi, provandole una dopo l’altra. In Italia dal 2001 al 2012 (con ampie pause) si è armeggiato soprattutto sulla riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, perché consentire «maggiore facilità di licenziamento» alle imprese sembrava la mossa obbligata. In Francia dal 1997 al 2005 è stato il momento della riduzione dell’orario, con la legge ideata dall’allora ministro socialista Martine Aubry: settimana di 35 ore, entrata in vigore nel 2000. In Germania, con la riforma del 2005, si è invece rinsaldata la catena che collega scuola, apprendistato e lavoro. Il «modello tedesco», declinato anche nei Paesi scandinavi e in Olanda, è oggi quello più accreditato. Il nuovo governo italiano sta adottando un approccio più composito: sconti fiscali alle aziende sui neo assunti; formazione; contratti a termine più facili da gestire.



Come si vede le discussioni teoriche hanno lasciato spazio alla sperimentazione pragmatica. La concretezza del nuovo corso, tuttavia, si deve confrontare con cifre che restano smisurate. Nell’Unione Europea i disoccupati sono 26,5milioni (11% della popolazione attiva), 5,6 milioni sono giovani fino a 24 anni; in Italia il totale è pari a 3,3 milioni (12%) di cui 696 mila giovani.
Di fronte a questo scenario sta crescendo una corrente (finora solo di pensiero) che chiede di buttar via quel mazzo di chiavi e di procedere con una rottura epocale nella relazione tra lavoro, reddito e diritti di cittadinanza. Uno degli interpreti in Italia è Piero Bevilacqua, professore di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma, che il 21 giugno ha scritto un articolo pubblicato sul quotidiano «il manifesto» con il titolo: Ripartire il lavoro o il reddito?. La tesi si può riassumere così: la competizione globale e le condizioni dei mercati non consentono ai Paesi occidentali (Italia compresa) di procedere alla riduzione dell’orario di lavoro. Il modello Aubry (o la variante di Fausto Bertinotti all’epoca del primo governo Prodi) non è più praticabile. Occorre, invece, un cambio di prospettiva. Bevilacqua cita un paio di volte Karl Marx per «demistificare» il vincolo tra lavoro, reddito e diritti di cittadinanza. Non è pensabile che le nuove generazioni al completo trovino posto nelle fabbriche, nei laboratori artigianali o nei servizi di tipo classico (dai trasporti alle telecomunicazioni). E dunque bisognerebbe trovare il coraggio di «inventare» un nuovo paradigma.
La produzione di merci e la fornitura di servizi coprono (e copriranno) il compenso solo di una quota di lavoratori, dipendenti, autonomi o professionisti che siano. Gli altri, i disoccupati, i giovani emarginati (i cosiddetti «neet» not in employment, education or training, secondo la definizione dell’Ocse), i lavoratori più esperti, le «pantere grigie» espulse prematuramente dal circuito produttivo potrebbero trovare «impiego nei lavori volontari, esterni al ciclo di riproduzione delle merci».
La proposta-provocazione di Bevilacqua non suona completamente nuova. Idee simili si ritrovano nel libro La fine del lavoro, forse il saggio più riuscito dell’economista americano Jeremy Rifkin, scritto nel 1995 (in Italia pubblicato da Baldini&Castoldi e poi da Mondadori). Anche Rifkin partiva dall’assunto che la crescita della produzione si fosse fermata. E che presto le società si sarebbero trovate davanti ai limiti del mercato: l’impossibilità di offrire posti di lavoro a tutti i nuovi arrivati, da retribuire grazie alla distribuzione dei profitti. Da questa analisi Rifkin deduceva due prescrizioni. La prima: poiché il lavoro non può crescere all’infinito, bisogna distribuire quello esistente, riducendo l’orario di attività. La seconda: dato che i comparti tradizionali sono ormai saturi, occorre spostare una parte della forza lavoro nei settori «non profit», come la cura delle persone, dell’ambiente, la manutenzione degli spazi pubblici cittadini, l’animazione culturale e così via.
La prima indicazione di Rifkin (e di altri economisti) è stata fonte di ispirazione per i socialisti francesi alla fine degli anni Novanta, con l’approdo alla settimana di 35 ore. I risultati di quella stagione sono controversi, sicuramente non risolutivi e comunque non replicabili oggi, come nota appunto Bevilacqua. Questa è l’opinione prevalente, anche tra i socialisti francesi visto che il presidente François Hollande non ha inserito la riduzione dell’orario nel suo programma elettorale. Non mancano le eccezioni interessanti, anche in Italia: si veda il volume appena pubblicato dall’ex segretario della Cisl Pierre Carniti: La risacca. Il lavoro senza lavoro (Altrimedia Edizioni, pagine 158, € 14). Si potrebbe, dunque, tentare con la seconda strada, inventando nuova occupazione, come ripropone Bevilacqua.
Andrebbe superata, però, l’obiezione di fondo: non è affatto evidente che la crescita economica e, di conseguenza, la creazione di posti di lavoro abbia raggiunto il suo limite naturale. Per restare al dibattito italiano, vale la pena citare un passaggio di un recente libro del giuslavorista Pietro Ichino (Inchiesta sul lavoro, Mondadori, pagine 240, € 18): «La tesi di Jeremy Rifkin sulla “fine del lavoro” non merita tutto il credito che le viene comunemente attribuito. In realtà non ci sono limiti alla domanda potenziale di manodopera. Anche senza pensare all’industria… quanto lavoro umano sarebbe necessario per far funzionare meglio le nostre scuole o i nostri ospedali, oppure nel campo dell’assistenza agli anziani… o nel campo della protezione dell’ambiente».
In realtà le analisi di Rifkin, di Bevilacqua e dello stesso Ichino convergono almeno su un punto: occorre uno sforzo di fantasia e di creatività politica per aprire i confini (Ichino parla di «muro») del lavoro così come l’abbiamo conosciuto e vissuto finora. Ma da qui in poi le opinioni tornano a dividersi. Il professor Ichino (senatore di Scelta civica) considera vitale attirare quella parte di investimenti esteri che finora è sfuggita all’Italia. Circa 57 miliardi di euro ogni anno, secondo i suoi calcoli, «29 volte l’investimento offerto da Marchionne nel 2010 con Fabbrica Italia». Bevilacqua, invece, sostiene che «le masse dei volontari» impiegate nelle mansioni alternative potrebbero essere pagate attingendo ai «profitti generati dai capitali finanziari». In sostanza una forma di tassazione sulla rendita finanziaria: se non si può dividere il lavoro, si proceda alla redistribuzione del reddito. Sì, come concretamente? Una qualche forma di prelievo fiscale sui capitali finanziari, come la Tobin Tax, sarebbe poco efficace se applicata in un solo Paese, ma in Europa non raccoglie (almeno finora) il consenso necessario. Si vuole pensare a un’imposta permanente su altre rendite oppure sui grandi patrimoni? Allora servirebbe un patto nazionale o europeo non solo tra le generazioni, ma anche tra i ceti abbienti e gli altri. Se non si può dividere il lavoro e si vuole suddividere il reddito, occorre, preliminarmente, ripensare gli equilibri tra i diversi blocchi sociali. Un’impresa politicamente e culturalmente difficile. Almeno quanto trovare la chiave giusta per aprire il mercato del lavoro.

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