Questa settimana due notizie importanti sono passate quasi inosservate in Italia. La prima: il diplomatico brasiliano Roberto Azevedo è stato scelto come nuovo capo del Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, al posto del francese Pascal Lamy. Seconda notizia: in Bangladesh una lavoratrice è stata estratta dalle macerie del Rana Plaza dopo 17 giorni, ma il conto delle vittime del crollo di quella enorme fabbrica tessile è arrivato a 1127, e ci sono ancora dei dispersi.
All’inizio degli anni Duemila, grazie ai movimenti di Seattle e al libro No Logo di Naomi Klein, perfino in Italia era cominciato un dibattito su costi e virtù della globalizzazione. Poi la crisi finanziaria e la recessione ci hanno fatto ripiegare su noi stessi. Ora l’economia che ci interessa è ridotta all’Imu, alla cassa integrazione e allo spread. Eppure il commercio globaleha continuato a crescere: nel 2009, dai Paesi membri del Wto, sono state esportate merci per un controvalore di 12.542 miliardi di dollari, nel 2012 per 18.323. Le uniche imprese italiane con prospettive di crescita sono quelle inserite nell’economia globale, che esportano.
Eppure, l’orizzonte della politica economica si è ristretto (il governo Berlusconi aveva addirittura chiuso l’istituto per il Commercio estero). Sia dal lato delle imprese sia da quello dei diritti. La crisi dei consumi ha fatto svanire quella consapevolezza negli acquisti che stava producendo effetti concreti – ricordate le campagne di boicottaggio contro la Nike? – e che sembrava la nascita di una democrazia globale del consumo adatta ad affrontare le sfide di un’economia non più confinata negli Stati nazionali.
Con pochi soldi in tasca, siamo meno sensibili a cosa c’è dietro un prezzo basso. E i sindacati non hanno mai raccolto il suggerimento che tanti, come Luciano Gallino, davano loro: il modo migliore per tutelare i lavoratori italiani nella competizione globale è la trasparenza sulla catena di fornitura. Chi comprerebbe una t-shirt sapendo che è stata prodotta da qualcuno che ha perso la vita per mantenere basso il prezzo? E forse oggi sarebbe un’informazione utile per il consumatore sapere come stanno reagendo le imprese alla catastrofe bengalese.
Benetton, tra i clienti della fabbrica crollata, ha deciso di rimanere in Bangladesh, con alcuni buoni propositi sul rispetto dei diritti dei lavoratori, decisione accolta con sollievo dai media locali, come il Dhaka Tribune. Altri, tipo la Walt Disney Company, hanno annunciato di lasciare il Paese, per andare lontano dagli scandali (e magari da giornalisti e ong).
Il commercio globale pare non appassionarci più, a noi del Vecchio mondo. È un segno dei tempi che all’agonizzante Wto arrivi un brasiliano al posto di un francese. Ma cedendo alle tendenze protezionistiche e autarchiche tipiche di ogni crisi non si eliminano i problemi e i drammi della competizione globale . Semplicemente stiamo rinunciando a gestirli per diventare solo spettatori passivi. O vittime.
Eppure, l’orizzonte della politica economica si è ristretto (il governo Berlusconi aveva addirittura chiuso l’istituto per il Commercio estero). Sia dal lato delle imprese sia da quello dei diritti. La crisi dei consumi ha fatto svanire quella consapevolezza negli acquisti che stava producendo effetti concreti – ricordate le campagne di boicottaggio contro la Nike? – e che sembrava la nascita di una democrazia globale del consumo adatta ad affrontare le sfide di un’economia non più confinata negli Stati nazionali.
Con pochi soldi in tasca, siamo meno sensibili a cosa c’è dietro un prezzo basso. E i sindacati non hanno mai raccolto il suggerimento che tanti, come Luciano Gallino, davano loro: il modo migliore per tutelare i lavoratori italiani nella competizione globale è la trasparenza sulla catena di fornitura. Chi comprerebbe una t-shirt sapendo che è stata prodotta da qualcuno che ha perso la vita per mantenere basso il prezzo? E forse oggi sarebbe un’informazione utile per il consumatore sapere come stanno reagendo le imprese alla catastrofe bengalese.
Benetton, tra i clienti della fabbrica crollata, ha deciso di rimanere in Bangladesh, con alcuni buoni propositi sul rispetto dei diritti dei lavoratori, decisione accolta con sollievo dai media locali, come il Dhaka Tribune. Altri, tipo la Walt Disney Company, hanno annunciato di lasciare il Paese, per andare lontano dagli scandali (e magari da giornalisti e ong).
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