Nel mondo inizia il sesto anno di crisi economica e si accende il dibattito
sulla disuguaglianza. In realtà è da 20 anni che la disuguaglianza cresce, ma la
crisi ha innescato la protesta sociale: un conto è arricchirsi meno degli altri
quando l’economia va bene, un altro è diventare più poveri mentre i ricchi
accrescono il loro benessere. Oggi il grande dilemma della maggioranza dei
leader politici nel mondo è come ridurre la disuguaglianza senza penalizzare la
crescita.
In Italia, invece, quasi nessuno si lamenta ancora del nostro
elevatissimo livello di disuguaglianza, anch’esso di lunga data. Da sempre
l’indice Gini in Italia (misura il divario tra i più ricchi e i più poveri) è
tra i maggiori d’Europa: è al livello della iperliberista Inghilterra e vicino a
quello degli Usa, molto più alto di quello di altri Paesi europei, come la
Germania o i Paesi scandinavi.
Anche la mobilità sociale, ovvero la
possibilità per i figli di genitori poveri di raggiungere un reddito alto, in
Italia è bassa. Siamo a livello degli Usa, ma con caratteristiche diverse: in
America il gruppo dei super-ricchi (il top 1% dei redditi) è sempre più
costituito da manager e professionisti, e sempre meno da imprenditori. Il
reddito in queste carriere dipende dalle scuole che si frequentano, i
professionisti più ricchi spesso si sposano tra di loro e possono mandare a loro
volta i figli nelle scuole più care. Questa è la causa principale della
riduzione della mobilità sociale in Usa negli ultimi vent’anni.
La
mobilità sociale italiana è bassa da sempre, ma per un’altra ragione: perché i
figli dei ricchi ereditano l’azienda e le proprietà del padre. Nel nostro Paese
non solo i poveri sono sempre stati molto più poveri, ma non hanno mai avuto
molte possibilità di diventare ricchi, come invece avviene negli Usa grazie alle
borse di studio per le migliori Università. Peraltro il nostro welfare non è
certo costato poco: oggi, in rapporto al Pil, è a livelli scandinavi, ovvero
delle società che hanno la più bassa disuguaglianza e la maggiore mobilità
sociale. Questi Paesi hanno trasformato negli anni il loro stato assistenziale
in un welfare in grado di creare opportunità per ogni cittadino senza falsare le
regole di mercato per sostenere la crescita dell’economia. Per esempio il
sussidio di disoccupazione termina se il lavoratore non si attiva seriamente per
rioccuparsi, mentre lo Stato lo aiuta a imparare un altro mestiere e a trovare
un lavoro diverso.
La disuguaglianza sociale in Italia è quindi un
problema enorme. Tuttavia se ne parla poco: sorprende soprattutto il
disinteresse delle sinistre. Prendiamo uno degli slogan lanciati proprio dalla
sinistra in questi mesi di crisi: «tassare i ricchi». Aumentare le tasse per
pagare il welfare dei poveri? No, farle salire per far «pagare il costo della
crisi ai ricchi». Di dare soldi ai poveri, se ne parla poco. Del resto il nostro
welfare non protegge i più poveri, i giovani e le donne: difende piuttosto i
capofamiglia maschi, ai quali garantisce il posto di lavoro e una pensione prima
di tutti gli altri Paesi.
Quando la sinistra parla di «politiche per la
crisi», parla sempre e solo di «difesa»: difesa del posto di lavoro, difesa
delle pensioni, difesa dei diritti. Non di creazione di opportunità, se non in
termini generici e vaghi.
Questo linguaggio è figlio di un’impostazione
conservatrice e anti-capitalista, che pone la sinistra italiana (e buona parte
del Paese) su un pianeta ideologico arretrato rispetto alle altre nazioni
occidentali.
Nel «pianeta Italia» la disuguaglianza viene oggi
affrontata basandosi su principi quasi feudali. Non è l’impresa che crea
benessere, ma il lavoro (art. 1 della Costituzione). Il lavoro esiste
indipendentemente dal capitale, dall’impresa, dal consumo. Interessa poco il
fatto che senza imprese e consumatori che comprano i loro prodotti non ci sono
lavoratori. Il lavoro, inteso come posto di lavoro, è un diritto inalienabile
dell’uomo, come la vita. Corollario: tutti i posti di lavoro vanno difesi.
Dunque se sei fortunato e vai in pensione quando sei ancora molto giovane, è un
tuo diritto. Lavori in miniera nel Sulcis? Un altro diritto che va difeso, anche
se difenderlo costa dieci volte il tuo stipendio. Inoltre, come la vita, il
lavoro di chi oggi ha un impiego è un bene molto più importante dell’occupazione
potenziale di chi un lavoro non ce l’ha. In un ospedale, i vivi hanno la
precedenza sui morti. È lo stesso atteggiamento del sindacato, di fronte a
occupati e disoccupati. È così che si crea l’«apartheid» di cui parla Pietro
Ichino tra i dodici milioni di intoccabili (assunti a tempo indeterminato) e i
nove milioni di «precari» e dipendenti delle piccole imprese.
La
sinistra italiana non ha capito che è il mercato a creare il lavoro e che il
compito dello Stato non è dichiarare che lo status quo è un diritto e
congelarlo, ma diminuire la disuguaglianza di opportunità favorendo
meritocrazia, concorrenza, scuola di qualità.
Se il centrodestra è
sempre stato il protettore dei grandi privilegi, la sinistra si è trasformata in
protettrice di quelli piccoli. La soluzione per ridurre la disuguaglianza da noi
è quella che serve anche a fare ripartire la crescita: rule of law (ovvero quel
rispetto delle regole senza il quale non nascono regole giuste necessarie al
libero mercato); e una «vera» meritocrazia, intesa come ricerca della
competizione, non come semplice riduzione delle raccomandazioni.
La
sinistra si pone come alternativa a una destra incapace di fare nascere questi
valori negli ultimi 25-30 anni. Ma riuscirà a superare quei tabù che l’hanno
resa un alleato della destra per creare il Paese più disuguale del mondo
occidentale?
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