Un saggio che rovescia la dottrina economica neoliberale e pone con forza la necessità di spiegare la sua egemonia nonostante il fallimento
Sembra la quadratura del cerchio, eppure è possibile riassumere teorie complesse in un linguaggio piano e al tempo stesso fornirne un'interpretazione originale. L'ultimo libro di Giorgio Lunghini - Conflitto, crisi, incertezza, Bollati Boringhieri, pp. 132, euro 14 - dimostra che nulla - ferma restando l'asperità del compito - impedisce la convivenza tra essenzialità, chiarezza e autonomia di giudizio. In nove brevi capitoli offre una magistrale sintesi comparativa dei cinque principali paradigmi (Ricardo, Marx, il marginalismo, Keynes e Sraffa) che articolano la discussione contemporanea. Ma, caratterizzata da una mirabile linearità del dettato (viene in mente lo Smith, Ricardo, Marx di Claudio Napoleoni), la ricostruzione si tiene stretta a un forte nucleo teorico - a una tesi critica in senso stretto radicale - che mette in questione il fondamento stesso del discorso economico, investendone frontalmente le finalità.
La sequenza delle posizioni prende le mosse dalla teoria neoclassica, oggi (da buoni quarant'anni) dominante soprattutto in ambito accademico (e noi italiani, governati dall'incarnazione stessa dello spirito bocconiano, sappiamo meglio di chiunque altro quanto strette e pericolose siano le relazioni tra accademia e politica). I tratti salienti della teoria sono individuati nell'individualismo metodologico (la teoria soggettiva del valore-utilità) e nella rappresentazione di un sistema economico in equilibrio («omeostatico»), nel quale le crisi sono accidentali e il mercato garantisce l'uguaglianza tra domanda e offerta in virtù della sua capacità di autoregolarsi. Emerge così il paradosso di una teoria che, nel momento in cui dichiara di partire dai bisogni e dalle preferenze di individui razionali e onniscienti, descrive la realtà dal punto di vista del capitale privato, fornendone un'immagine controfattuale (un mondo senza crisi né conflitti distributivi, in cui lo scopo dell'attività economica è la produzione di valori d'uso e la moneta non incide sulla produzione e sui livelli occupazionali), per ciò stesso funzionale al dominio dell'impresa e della finanza.
Il modello neoclassico è il termine di riferimento per l'esame delle altre teorie, a cominciare da quelle di Ricardo e Marx, sue prime autorevoli rivali ante litteram. Ricardo svela un primo non-detto del marginalismo (il conflitto distributivo tra capitale e lavoro e il suo definirsi in base ai rapporti di forza sociali); Marx ne mette implacabilmente a nudo altri (la storicità del capitalismo industriale; il dispotismo del capitale nel condizionare alla generazione di profitto composizione e volumi della produzione; la casualità e precarietà dell'equilibrio e il ruolo-chiave svolto dalle crisi). Quanto la posizione marxiana sia attuale e misconosciuta (anche a sinistra) lo chiarisce il passaggio che Lunghini dedica allo statuto del lavoro vivo, quindi alla vexata quæstio della presunta estinzione del salariato (che in realtà cresce, nella misura in cui il suo tratto costitutivo non è la forma contrattuale ma la concreta subordinazione alle decisioni del capitale).
Seguono Keynes e Sraffa. Il primo compie un gesto che, di per sé, svuota di senso l'utopica oleografia dei neoclassici: nessuno - tanto meno il singolo individuo - dispone di conoscenze sufficienti a orientare scelte razionali tese a soddisfare i bisogni. Nella sua forma attuale, l'economia (come la realtà stessa) è il regno dell'incertezza, alla quale ciascuno cerca di far fronte con risposte anche «istintive» (Keynes riflette mentre Freud si fa faticosamente strada lungo i sentieri dell'inconscio), dettate da sfiducia e inquietudine. Di qui una serie di fattori critici (la preferenza per la liquidità; la propensione al tesoreggiamento; l'impiego speculativo della moneta) che causano l'instabilità del sistema e, soprattutto, rendono normale la sottoccupazione. Quanto a Sraffa, egli compie un sacrilego passo wittgensteiniano (far dire alla teoria economica tutto il dicibile per fare emergere l'ineffabile) che ne decreta la damnatio memoriæ. L'aver risolto il problema ricardiano (e marxiano) della misura invariabile rimuovendo il nesso tra valore e prezzi (quindi sopprimendo la questione del valore) significa in realtà - fuor di metafora - costringere la «scienza» economica a riconoscersi politica: discorso e ideologia plasmati dagli interessi sociali in conflitto.
Un crimine di lesa maestà. Che ha, tra gli altri, il merito di risolvere la «questione gramsciana» che Lunghini, attento lettore dei Quaderni, finge di «consegnare al lettore» e alla quale invece risponde con nettezza. Perché l'egemonia culturale e politica della teoria neoclassica a dispetto di un palese fallimento teorico? Proprio per quel conflitto e quei rapporti di forza tra le classi di cui parlano Ricardo e Marx; proprio per quella tutela della sperequazione e della rendita di cui parla Keynes; proprio per la rimozione del conflitto teorico di cui parla, a proposito di Sraffa, Luigi Pasinetti. Come dire (ai «nipoti» e al common reader cui il libro è dedicato): ora spetta a voi (a ciascuno di noi) operare sul terreno pratico per la risoluzione di un problema (non soltanto la ricchezza: anche il benessere comune, la «felicità» di tutti) di cui l'economia non può farsi carico, in quanto «scienza borghese». Non diversamente Marx chiuse da giovane i conti con la filosofia contemplativa scrivendo che è maturo il tempo per una comprensione del mondo che sia anche la sua trasformazione.
La sequenza delle posizioni prende le mosse dalla teoria neoclassica, oggi (da buoni quarant'anni) dominante soprattutto in ambito accademico (e noi italiani, governati dall'incarnazione stessa dello spirito bocconiano, sappiamo meglio di chiunque altro quanto strette e pericolose siano le relazioni tra accademia e politica). I tratti salienti della teoria sono individuati nell'individualismo metodologico (la teoria soggettiva del valore-utilità) e nella rappresentazione di un sistema economico in equilibrio («omeostatico»), nel quale le crisi sono accidentali e il mercato garantisce l'uguaglianza tra domanda e offerta in virtù della sua capacità di autoregolarsi. Emerge così il paradosso di una teoria che, nel momento in cui dichiara di partire dai bisogni e dalle preferenze di individui razionali e onniscienti, descrive la realtà dal punto di vista del capitale privato, fornendone un'immagine controfattuale (un mondo senza crisi né conflitti distributivi, in cui lo scopo dell'attività economica è la produzione di valori d'uso e la moneta non incide sulla produzione e sui livelli occupazionali), per ciò stesso funzionale al dominio dell'impresa e della finanza.
Il modello neoclassico è il termine di riferimento per l'esame delle altre teorie, a cominciare da quelle di Ricardo e Marx, sue prime autorevoli rivali ante litteram. Ricardo svela un primo non-detto del marginalismo (il conflitto distributivo tra capitale e lavoro e il suo definirsi in base ai rapporti di forza sociali); Marx ne mette implacabilmente a nudo altri (la storicità del capitalismo industriale; il dispotismo del capitale nel condizionare alla generazione di profitto composizione e volumi della produzione; la casualità e precarietà dell'equilibrio e il ruolo-chiave svolto dalle crisi). Quanto la posizione marxiana sia attuale e misconosciuta (anche a sinistra) lo chiarisce il passaggio che Lunghini dedica allo statuto del lavoro vivo, quindi alla vexata quæstio della presunta estinzione del salariato (che in realtà cresce, nella misura in cui il suo tratto costitutivo non è la forma contrattuale ma la concreta subordinazione alle decisioni del capitale).
Seguono Keynes e Sraffa. Il primo compie un gesto che, di per sé, svuota di senso l'utopica oleografia dei neoclassici: nessuno - tanto meno il singolo individuo - dispone di conoscenze sufficienti a orientare scelte razionali tese a soddisfare i bisogni. Nella sua forma attuale, l'economia (come la realtà stessa) è il regno dell'incertezza, alla quale ciascuno cerca di far fronte con risposte anche «istintive» (Keynes riflette mentre Freud si fa faticosamente strada lungo i sentieri dell'inconscio), dettate da sfiducia e inquietudine. Di qui una serie di fattori critici (la preferenza per la liquidità; la propensione al tesoreggiamento; l'impiego speculativo della moneta) che causano l'instabilità del sistema e, soprattutto, rendono normale la sottoccupazione. Quanto a Sraffa, egli compie un sacrilego passo wittgensteiniano (far dire alla teoria economica tutto il dicibile per fare emergere l'ineffabile) che ne decreta la damnatio memoriæ. L'aver risolto il problema ricardiano (e marxiano) della misura invariabile rimuovendo il nesso tra valore e prezzi (quindi sopprimendo la questione del valore) significa in realtà - fuor di metafora - costringere la «scienza» economica a riconoscersi politica: discorso e ideologia plasmati dagli interessi sociali in conflitto.
Un crimine di lesa maestà. Che ha, tra gli altri, il merito di risolvere la «questione gramsciana» che Lunghini, attento lettore dei Quaderni, finge di «consegnare al lettore» e alla quale invece risponde con nettezza. Perché l'egemonia culturale e politica della teoria neoclassica a dispetto di un palese fallimento teorico? Proprio per quel conflitto e quei rapporti di forza tra le classi di cui parlano Ricardo e Marx; proprio per quella tutela della sperequazione e della rendita di cui parla Keynes; proprio per la rimozione del conflitto teorico di cui parla, a proposito di Sraffa, Luigi Pasinetti. Come dire (ai «nipoti» e al common reader cui il libro è dedicato): ora spetta a voi (a ciascuno di noi) operare sul terreno pratico per la risoluzione di un problema (non soltanto la ricchezza: anche il benessere comune, la «felicità» di tutti) di cui l'economia non può farsi carico, in quanto «scienza borghese». Non diversamente Marx chiuse da giovane i conti con la filosofia contemplativa scrivendo che è maturo il tempo per una comprensione del mondo che sia anche la sua trasformazione.
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